Ammiraglie inaffondabili. Damilano racconta la crisi giornalistica a OltreConfine

Luci accese, quattrocentoventi poltroncine arancioni riempite. Nel vociare di una sala che è tornata ad animarsi, a vivere la cultura in presenza, uno scroscio d’applausi. Marco Damilano è entrato al Garden. Venuto direttamente dagli studi televisivi romani, il giornalista saluta quel pubblico così caloroso. Sorride, non si aspettava un pubblico così in provincia. 

OltreConfine ha fatto centro, riuscendo a portare una firma di così alto livello in Valle Camonica. OltreConfine ha fatto centro perché non ha mai smesso di credere nel bisogno di fare cultura in una piccola realtà come la nostra, una spinta vitale l’ha sempre fatto muovere, anche in mezzo all’incertezza pandemica. Perché, diciamolo, gli ultimi due anni non sono stati una passeggiata per chi si muoveva nel mondo culturale. Ne avevamo già parlato nel numero 308 di Graffiti, in occasione della ripartenza dei festival culturali nell’estate del 2021, ma ancora non immaginavamo che il programma dell’anno successivo sarebbe stato così denso e di spessore. Allora si parlava di ripresa e di speranza, con il direttore artistico Stefano Malosso. «Dopo più di un anno di chiusure, slittamenti e luci spente questo tornare in presenza fa parte di un processo di rinascita e ripresa e credo che, soprattutto, contribuisca alla rielaborazione del trauma che abbiamo vissuto. Un festival come questo accorcia le distanze e favorisce l’aggregazione della comunità, e dice che in questo dolore siamo tutti molto simili».

Il pubblico ascolta Damilano dialogare con Massimo Tedeschi con l’ultimo libro del giornalista romano sulle ginocchia. Il Presidente, edito da La Nave di Teseo, vuole essere il The Crown italiano, il romanzo Repubblicano che non abbiamo mai avuto. Il libro ripercorre la storia d’Italia, i Presidenti che l’hanno fatta e disfatta. Nel romanzo «l’ora diurna e il tempo notturno si confondono, si intrecciano, in politica come nella vita, tra le passioni e la depressione, l’esaltazione e l’annientamento».
Damilano parla dei quaderni in cui da adolescente incollava i ritagli di giornale che raccontavano le elezioni del Presidente. «Il mio sogno, man mano che si avvicinava il giorno, era poter assistere dal vivo alla seduta in cui i grandi elettori avrebbero votato», confida. Alla mente viene subito richiamata la Maratona Mentana delle ultime elezioni, in cui Damilano ci parlava da Montecitorio. Ce l’ha fatta, viene da pensare.

Non sono tempi facili per il giornalismo italiano, Damilano lo dice chiaro e tondo.
«I giornali davano ordine al caos e restituivano spessore alle parole. Allora sembravano ammiraglie inaffondabili che ti consentivano di navigare nella realtà. Oggi appaiono barche di carta del mare tempestoso del digitale». 
Già in occasione del Festival del Giornalismo di Perugia del 2016, Marco Damilano affermò che, per la prima volta, c’è una generazione che ripudia il sistema politico e giornalistico. Parlava della crisi dei giornali e probabilmente non immaginava che di lì a qualche anno avrebbe lasciato la direzione de L’Espresso a causa della vendita del periodico. «L'informazione di oggi è spezzettata, atomizzata. Il lettore legge i vari pezzetti di informazione e pensa di sapere tutto. In realtà ci sarà sempre bisogno di qualcuno (il giornalista) che unisce i puntini, che ricuce i pezzetti. Il giornalismo oggi vive una fase di delegittimazione totale da parte del pubblico e al tempo stesso viene attaccato dal mondo della politica». 

 Un sistema in crisi ha il compito di risollevarsi, di riacquisire credibilità. Ma, in primis, ha il dovere di riconoscere le proprie falle, perché «un paese senza un sistema informativo forte, libero e affidabile è un paese che ha un problema».