In alto i cuori: il dott. Ravazzoli ci racconta cosa accade nella RSA di Esine


Era il 21 marzo quando sul blog di Graffiti e sui social ho pubblicato poche righe dal titolo “Sono un medico” che descrivevano brevemente la situazione che stavamo vivendo come operatori sanitari all’interno delle RSA. In particolare, di quella da me diretta, l’RSA Ninj Beccagutti di Esine.
Eravamo nel pieno della buriana che imperversava, gli ospedali erano al collasso, il sistema sanitario nazionale, in particolare quello lombardo, era in balia degli eventi, nelle nostre strade deserte l’unico suono che rimbombava era quello delle sirene.
Eppure, anche noi eravamo già in lotta contro questo nemico infame ed invisibile che abbiamo imparato a conoscere ed odiare.

Quelle poche parole scritte d’impulso e dettate dal cuore hanno avuto un impatto ben più grande di quello che mi aspettassi. 
Nel giro di pochissimi giorni abbiamo ricevuto moltissime donazioni, abbiamo ricevuto mascherine, tute protettive, visiere, ci hanno regalo tessuto TNT dal quale delle sarte ci hanno ricavato meravigliosi camici e calzari che sono andati ad aumentare il numero di tutti i DPI che avevamo già acquistato. Inoltre, siamo stati in grado di comprare nuove attrezzature sanitarie per poter essere più incisivi nella cura contro il famigerato Sars-Cov-2 e monitorizzare i nostri ospiti.
Ho visto in questi giorni l’abnegazione del mio personale, che mai ha mostrato un attimo di cedimento, ho percepito la fatica nei loro occhi quando gli ho chiesto qualche sacrificio in più perché avevamo bisogno di ridistribuire i nostri ospiti nella struttura creando una zona di isolamento, ho visto lo sconforto quando qualcuno dei nostri nonni non ha vinto la battaglia contro l’ultimo nemico, ma quello che davvero non è mai mancato e costantemente era presente in ogni gesto, in ogni momento è stato l’amore per il prossimo, l’amore e la dignità di accudire chi per tante ragioni ha finito i suoi ultimi anni in una RSA.

Ecco, tutto ciò mi ha permesso di riscoprire l’umanità di essere medico.
Prima di fare il direttore sanitario in questa struttura ho fatto l’anestesista rianimatore per 14 anni. Ho salvato alcune vite ma ho purtroppo visto anche tanti pazienti morire. Giovani, anziani, di mezza età, donne o uomini. Raramente però ho pianto, raramente mi sono lasciato coinvolgere dal dramma della morte perché mi sono sempre ripetuto che era sbagliato, che non dovevo perché altrimenti sarei stato sopraffatto come medico e come uomo.
Tutto è cambiato da quando ho deciso di lavorare in questo posto meraviglioso, che una volta tristemente chiamavano ospizio o ricovero ed ora RSA. È cambiato perché l’umanità, la dignità della sofferenza e l’affetto che c’è in una residenza socio-assistenziale è diverso rispetto a tutto quello che un sanitario può provare. È diverso perché di ogni singolo ospite conosci la sua vita, i suoi punti forti e le sue debolezze, conosci la sua famiglia e ne diventi parte. Ed ho iniziato a piangere, tanto, troppo. Ho pianto per ogni singolo ospite che ci ha lasciato perché era parte della nostra famiglia, della nostra RSA, sia prima del Coronavirus che ora.

Ed adesso è ancora più dura. Più dura perché siamo rimasti soli. Gli ospedali non erano in grado di accogliere i pazienti che provenivano dal domicilio, figuriamoci quelli delle RSA. Lasciati soli dalla Regione che non ci ha dato la possibilità di fare i tanto famigerati tamponi e ci ha fornito scarse indicazioni o ne ha date alcune di difficile applicazione. Nessuna indicazione o protocollo terapeutico, ci siamo dovuti arrangiare nel reperire i farmaci sul mercato, farmaci introvabili come l’idrossiclorochina (un familiare di un’ospite ce ne ha regalate 50 confezioni) e tanti altri. E nel frattempo dovevamo attrezzarci per reperire DPI, addestrare il personale, informare i parenti delle nostre scelte.
Mi ricordo quando, in anticipo rispetto alla Regione Lombardia, ho prima ridotto gli accessi ad 1 familiare per ospite e poi chiuso completamente la struttura agli esterni ed il centro diurno. Quanti piccoli malumori, quanti sguardi torvi. Ed oggi proprio quelle persone mi ringraziano per aver fatto quelle scelte allora impopolari.
Eppure, nonostante tutti gli sforzi profusi era impensabile che il nemico invisibile non entrasse tra le nostre mura, che colpisse i nostri ospiti. Perché come è dilagato in modo devastante sul territorio, è entrato nelle case di bresciani e bergamaschi portando morte e sofferenza, è entrato anche nelle nostre strutture. Non ci siamo persi d’animo e lo abbiamo combattuto e lo stiamo combattendo. Ma abbiamo trovato grandi difficoltà proprio come riportavo sopra. Regione Lombardia dava indicazioni di isolare tutti i pazienti che presentavano sindromi simil influenzali, senza però dare indicazioni sulle tempistiche dell’isolamento, su cosa basarsi per la diagnosi e la terapia.

Noi soffriamo perché siamo in quarantena, in casa nostra, con tv, telefonino per chiamare gli amici, libri, cibo a volontà. Avete mai provato a pensare cosa vuol dire essere un grande anziano di 80 o 90 anni con una demenza senile terminale o un Alzheimer ed essere confinato per 24 ore in un stanza senza poter parlare con un familiare, vedendo intorno solo persone vestite e mascherate che non puoi riconoscere? Provate ad immaginarlo e capirete che tra il dire di fare un isolamento stretto ed il farlo ci passa un oceano.
Personalmente ho trasformato la mia RSA in un piccolo ospedale, facendo a tutti gli ospiti radiografie del torace, esami ematochimici per cercare di fare diagnosi anche senza tamponi, creando una zona d’isolamento ad alto livello assistenziale e mantenendo una zona “normale” per gli ospiti sani. Ma le RSA non sono ospedali e non hanno la stessa capacità, lo stesso personale, le stesse risorse economiche. Nonostante ciò ce la stiamo mettendo tutta. Finalmente questo venerdì (10 aprile, ndr) abbiamo avuto (dopo reiterate richieste) l’autorizzazione da Regione e da ATS per poter tamponare i nostri ospiti. Meglio tardi che mai.

Giornalmente sento di persona tutti i familiari degli ospiti della mia struttura che sono malati di Covid-19 o di qualsiasi altra cosa (perché ricordiamolo sfortunatamente i tumori, le malattie cardiovascolari, le infezioni batteriche non sono scomparse!) e loro sono i primi ad incitarci, a comprendere quello che stiamo facendo ed a sostenerci. Sento quanto soffrono nel non poter essere vicini ai loro cari ma sono anche consci di quanto grande sia il nostro impegno. E questo è semplicemente meraviglioso, soprattutto quando le cose non vanno bene come vorresti e sono quasi loro a rincuorarti dicendoti di non mollare, di continuare e tenere alto il morale.
Noi ci stiamo davvero impegnando al massimo per sostituirci a loro, ma non è la stessa cosa ovviamente.
Potete scommettere quello che volete che nella mia RSA come in tante altre nessuno è solo, nessuno dei nostri ospiti che sono deceduti in questo periodo infame è morto da solo perché vicino a lui c’era un ASA, un’infermiera, un medico a tenergli la mano, e molto spesso anche la nostra direttrice.
È questo che mi dà la forza di continuare a fare il medico in un momento del genere, di andare ogni giorno al lavoro orgoglioso.

Quello che invece moralmente mi affossa è leggere titoli sui giornali come “Strage nelle RSA”, “Ospiti abbandonati a morire”. Ma come si fa? Stiamo affrontando una pandemia con un tasso di letalità tra gli over 75 del 25-30%. E stiamo lottando contro un leone utilizzando cerbottane armate con palline di carta. Ma vi assicuro che stiamo lottando con tutta la forza che abbiamo, non indietreggiando di un solo passo. E lo stiamo facendo pagando anche con la nostra stessa salute. E quindi secondo voi perché scrivere certe cose? Perché dare un’immagine cosi negativa proprio in questo momento?
Cerchiamo di dare spazio alle cose positive, diamo risalto al duro lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo nelle nostre RSA e lasciamo le polemiche ed i falsi moralismi alle spalle. Ci sarà un momento in cui dovremo leccarci le ferite, ma non è qui ed ora. Qui ed ora dobbiamo continuare a lottare per strappare al virus i nostri pazienti, solo cosi possiamo sperare di fare la cosa giusta.
E come diciamo in questi giorni come motto per rincuorarci a vicenda… in alto i cuori!

Dottor Mauro Ravazzoli (Direttore Sanitario RSA Ninj Beccagutti)