Scuola-azienda: cambiare tutto per non cambiare nulla

 Non si può morire di scuola, dicono gli striscioni dei ragazzi scesi nelle piazze di tutta Italia. Eppure, di scuola e di lavoro si muore. Lorenzo Parelli aveva 18 anni quando una trave d’acciaio l’ha schiacciato, mettendo fine alla sua vita durante l’ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro. Quindici giorni dopo un destino simile tocca al sedicenne Giuseppe Lenoci, anche se il ministro Bianchi sottolinea che non si trattasse di alternanza, ma di un percorso di formazione professionale triennale. Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.
Non si tratta di incidenti di percorso o tragedie: le morti di Parelli e Lenoci sono la diretta conseguenza di un sistema lavorativo che, statisticamente, produce più di tre morti al giorno. I giovani sono scesi in piazza per manifestare contro la scuola azienda, contro il disinteresse delle istituzioni che di fronte a due morti in sole poche settimane non hanno fatto nulla per aumentare tutele e sicurezze.
Gli studenti insorgono, alzano la voce e si fanno sentire. Loro, i lassisti, gli svogliati, gli sdraiati - per dirla con le parole di Michele Serra - si sono sentiti rimproverare per anni dai nostalgici sessantottini ma, una volta per strada, hanno ricevuto manganellate da parte delle forze dell’ordine. Durante la pandemia si è tanto sperato in un risveglio della partecipazione alla vita del paese, ora che la sveglia è suonata le istituzioni si voltano dall’altra parte. Gli studenti hanno protestato prima per il sistema malfunzionante, poi perché le vite di Lorenzo e Giuseppe non sono bastate per mettere in discussione il modello di alternanza-scuola lavoro conosciuto finora. La scuola è la grande protagonista di ogni epoca. A fasi cicliche, si cerca di metterla in discussione, ma poi di trasformazioni non se ne vedono. Si modificano i termini senza modificare il contenuto. Cambiare tutto per non cambiare niente, scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo.

 L’alternanza scuola-lavoro, un tempo conosciuta come stage e di recente rinnovata in PCTO - Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento - tramite la L.145/2018, è stata introdotta nelle aule come “un metodo educativo per integrare mondo scolastico e mondo lavorativo”. Un maestro che aiuti a costruire ponti e non muri tra generazioni e saperi. Un ponte verso il lavoro non retribuito, l’assenza di tutele, i contratti di tre mesi e poi arrivederci.
«Gli stage sono, purtroppo, troppo spesso uno strumento tramite il quale ottenere una prestazione lavorativa gratuitamente» commenta Barbara Distaso, segretaria generale della CGIL Vallecamonica Sebino.
L’istruzione pubblica si è piegata alle esigenze delle aziende che hanno come fine l’aumento dei profitti e la diminuzione di salari che porta, inevitabilmente, all’aumento dello sfruttamento. Le imprese sguazzano nel mare delle convenzioni e dei progetti formativi, quelle più piccole hanno la possibilità di ottenere manodopera gratis, quelle più grandi utilizzano i PCTO per appaltare al sistema scolastico la formazione dei loro dipendenti.
C’è qualcosa che non va, è lampante. Licei, istituti superiori ma anche Università, anziché formare persone libere e consapevoli, hanno deciso di prepararle ad un mercato del lavoro che opprime, ammala, uccide.

Le offerte di stage non si fermano, non possono farlo perché significherebbe rallentare la grande macchina produttiva. E allora si propongono ancora allettanti possibilità fatte di trenta ore settimanali per sei mesi, zero contributi, da regalare ad un sistema che si basa sullo sfruttamento.
A quindici anni gli studenti iniziano ad imparare che è normale lavorare gratis, senza diritti. Imparano che l’importante è il profitto, l’essere performanti, produrre e ancora produrre. La meritocrazia è all’ordine del giorno, vengono premiate le eccellenze come se contasse solo quello, un voto, una media, numeri sterili che non dicono nulla dell’individuo. Perché non ricevono un premio i più deboli, quelli che arrancano ma a loro modo ce la fanno comunque? La scuola è diventata un’azienda, impegnata ad imbellettarsi in occasione degli open day, specchi per le allodole. Si punta tutto sulle competenze richieste nel mondo del lavoro e non più sulla formazione di cittadini in grado di discernere i diritti dai doveri. Dov’è la scuola che educa alla libertà, a spezzare le catene? E perché nei nostri Istituti si fanno incontri su incontri con imprese, associazioni, organizzazioni di ogni tipo e mai con i sindacati? Si insegnano agli studenti le skills richieste dal mercato e non a tutelarsi.
«Gli incontri si fanno solo raramente, per lo più quando c’è una personale sensibilità in alcuni docenti - continua la segretaria generale CGIL Valcamonica Sebino - a noi piacerebbe, invece, poterci accordare per renderli strutturali».

Anche la FLC CGIL ha preso parola davanti alle morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci affermando che “La sfida democratica che il nostro Paese deve affrontare è quella di rendere concreta ed esigibile la possibilità di un cambiamento in direzione di un nuovo modello di sviluppo. Questo chiedono i ragazzi e le ragazze e questo chiede la nostra organizzazione che continuerà a battersi per garantire alle nuove generazioni, contro ogni precarietà, un futuro di diritti, di qualità del lavoro, di equità sociale e di libertà”.

Per parlare di futuro, è inevitabile riflettere sulla scuola. E pretendere un cambiamento. Vero, però, non solo sulla carta. 


Maria Ducoli