Dall’angolazione giusta. Il calcio femminile visto dalla telecamera di Sara Domenighini

"Ma da quando le femmine giocano a calcio?". Forse anche a te sarà capitato di sentire questa domanda. Graffiti ha deciso di approfondire l'argomento con una serie di interviste a giocatrici, arbitri, allenatori/allenatrici, dirigenti che si occupano di calcio femminile in Valle Camonica. È un mondo complesso, che lotta contro il pregiudizio. Ma sono anche storie di sport e di donne che affermano in questo modo la loro passione, la loro determinazione, la loro indipendenza. Sì, le femmine giocano a calcio, e spesso anche meglio dei colleghi maschi.

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Mario Calabresi una volta disse che un giornalista, così come un fotografo, ha il dovere di vivere in mezzo alle formiche, di vedere il mondo dal loro punto di vista. E non importa che tempo fa o quanti chilometri si debbano percorrere, bisogna essere presenti con la testa e il cuore. 

Sara Domenighini ha imparato a conoscere il campo guardandolo dall’obiettivo della sua telecamera. Il suo lavoro di giornalista per PiùValli Tv è iniziato quasi per caso, nel 2017 i calciatori scendevano in campo per il campionato e lei varcava la soglia della redazione. Il suono del fischietto ha sancito un nuovo inizio per tutti. 

«Il mondo del calcio mi è sempre piaciuto, anche a scuola era una delle tracce che sviluppavo più spesso nei temi, ma non ho mai visto il giornalismo sportivo come una possibilità concreta». 

E invece poi lo è diventata. Dai primi servizi inizia ad appassionarsi al mestiere, compra una telecamera per imparare meglio, si avvicina anche alla cronaca e legge il telegiornale. Ma - e questo Sara lo dice con gli occhi che le brillano - il suo terreno fertile è lo sport, il suo posto è dietro una cinepresa, non davanti. Vuole vedere, raccontare le emozioni vissute in campo dall’angolazione giusta. «Sì, non hai orari o sabati e domeniche. Sei all’aperto, pioggia o sole che ci sia, ma è il lavoro che mi rende più felice al mondo».

Durante la pandemia, Sara è stata l’operatrice del Brescia femminile. Ogni settimana seguiva la squadra, sedeva sugli spalti con le calciatrici e riprendeva la loro forsennata corsa verso la porta.

«Ciò che rende speciale il calcio femminile sono le sue stesse difficoltà. Chi gioca in serie B - a differenza degli uomini - non viene pagata, c’è solo un minimo rimborso spese. Le calciatrici sono persone che lavorano e che dedicano il loro tempo libero al calcio. La passione e l’impegno che stanno dietro sono quasi commoventi».

Carolina Morace, in un’intervista per la Gazzetta dello Sport, disse: «Noi giocatrici cerchiamo pari dignità rispetto al calcio maschile, che non vuol dire parità salariale visto che gli uomini muovono una quantità di soldi mille volte superiore, ma significa avere le stesse possibilità di crescita». Sara fa un discorso molto simile, analizzando la situazione locale. Spesso le bambine si avvicinano al calcio per curiosità, per qualcuna è solo una fase destinata a concludersi presto, per altre diventa una vera e propria passione. Non avendo, però, sul territorio realtà pronte ad accogliere le calciatrici, queste devono relegarlo alla domenica pomeriggio, nel campo dell’oratorio.

«Il Darfo e il Breno dovrebbero pensare a qualcosa per le ragazze. L’interesse verso il calcio femminile c’è, agli open day partecipano sempre molte bambine. Il problema non è nella partecipazione, ma nei genitori: sono ancora reticenti e questo perché non hanno una realtà calcistica sotto gli occhi tutti i giorni». La questione, quindi, è sociale. Riguarda l’intero sistema, che mette un pallone in mano alle ragazze dicendo loro di non diventare troppo brave perché di opportunità non ne avranno. Non tutte, infatti, hanno la possibilità di scendere a Brescia per allenarsi e lo sport, spesso emblema dell’inclusione, diventa un privilegio.

«Un altro problema, in Valle, riguarda la mancanza dei campi. Il Breno, ad esempio, ha le varie squadre che si allenano dislocate nei paesi limitrofi. Quando i campi ci sono, non vanno bene per le squadre femminili». Infatti, le donne devono adattarsi alle metrature previste per gli uomini. Una porta regolamentare è di 7,32 metri di larghezza per 2,24 di altezza. Se diamo un’occhiata ai calciatori, i portieri sono raramente più bassi di 1,85 m. Si tratta di un’altezza che, però, raramente raggiungono le portiere del calcio femminile.

Questo porta a chiederci se l’esistenza dei cosiddetti sport "da uomo" e "da donna" non sia invece legata alle strutture disponibili. Può davvero il calcio diventare uno sport femminile se i campi su cui si gioca sono pensati per le caratteristiche fisiche dei maschi?

Maria Ducoli