Lettera aperta ai sindaci dei piccoli comuni

So quanto sia difficile amministrare nei piccoli comuni della Valle Camonica. E so anche che pochi ormai sono disponibili a sacrificarsi, senza alcun riconoscimento, per gestire le scarse risorse disponibili. Non sempre i nostri governanti e legislatori tengono conto dei paesi di montagna. Un ultimo esempio l’abbiamo visto anche in occasione dell’ultimo decreto sulle norme anticovid. Bar e ristoranti possono riaprire se hanno posti all’esterno. E’ comprensibile la preoccupazione delle nostre autorità centrali. Il virus continua a tormentarci e la trasmissione avviene soprattutto in luoghi chiusi. Ma vi rendete conto di che cosa significa per i nostri paesi stare all’esterno con una primavera particolarmente fredda come quella che stiamo trascorrendo? Comprensibile quindi la decisione del governo, ma altrettanto comprensibile la reazione dei gestori dei nostri ambienti commerciali che di fatto sono rimasti in piena chiusura con perdite continue e nessuna possibilità di recupero.

Ai problemi della montagna invece i sindaci di Valcamonica non possono essere insensibili. Vivono tra i monti. Ecco perché la loro attenzione per la ripresa di vita sociale ed economica nei loro comuni non può essere elusa. Ma dopo le ripetute delusioni degli ultimi trent’anni (continua perdita di abitanti, diminuzione dei servizi, vita sociale asfittica) è necessario inaugurare una nuova rinascita. Da dove partire?
Innanzitutto da progetti intesi a ricreare nei pesi una vita sociale. La differenza tra la vita di città e quella del piccolo paese sta sì nel contatto con la natura, ma sta altresì nella possibilità di sentirsi legati ad una comunità. Senza curare questo aspetto non illudiamoci: tutti gli altri progetti economici (a volte faraonici) non approderanno a nulla se non ci saranno progetti mirati di ricostruzione del tessuto sociale. Le idee di intervento mirato nel campo delle relazioni non può essere eluso se si ha a cuore la sopravvivenza della propria comunità. Ma ci vuole un piano preciso. Nulla nasce spontaneamente. Così si è mossa la sindaca di Ostana. Sentiamo le sue parole: "Il modello è riproducibile solo se c'è una forte idea di comunità: una delle cose che voglio sempre ricordare è che il progetto Ostana è fatto dalle persone che lo vivono, che riescono a contagiarsi l'un l'altra con l'idea di un progetto comune. Vede, la nostra tradizione prevede le "ruide", cioè giornate di lavoro collettivo a favore della collettività: lo spirito deve essere quello perché chi arriva qui con forte individualità poco porta a casa. L'altra cosa importante è avere presente che la montagna non è un parco giochi, si viene qui perché si fa una scelta di vita, perché si apprezza questo modo di vivere in cui non ci si arricchisce. Il nostro modello di sviluppo è diverso: nessuno vive d'aria, ma nessuno può prosperare da solo".

Se i 90 residenti di Ostana vi sembrano pochi pensate a un altro numero: nel giro di circa 40 anni la popolazione di Ostana è diventata 18 volte maggiore, un risultato davvero eccezionale per un borgo di montagna. Il numero da cui partire è infatti quello dei residenti rimasti nel paese piemontese negli anni Ottanta: 5.

Certo, non ci sono solo i progetti sociali: si è investito in un’edilizia di recupero e di qualità, in creazione di posti di lavoro, in cooperazione. Così il miracolo si è realizzato. Perché non riprodurre l’esperimento a Paisco piuttosto che a Canè o Saviore?

L’intervista completa a Silvia Rovere la trovate sul web. Da leggere.

Giancarlo Maculotti

Fotografie di Luca Giarelli (CC), Wikimedia commons