L’Italia non è un Paese per restauratori

Sono molti in Italia i giovani, tecnici del restauro e restauratori, costretti ad abbandonare la propria passione perché impossibilitati a trovare un lavoro sufficientemente retribuito o frustrati per l’infinita gavetta lavorativa che porta, nonostante tutto, al precariato.

Ma un passo alla volta. Chi è e di cosa si occupa un restauratore?
Il restauratore è colui, o colei, che si occupa di conservazione, recupero e valorizzazione di opere d’arte e manufatti antichi.
 

Si diventa restauratori frequentando una scuola di restauro di alta formazione di durata quinquennale e in Italia, fra quelle riconosciute, vi sono: l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro di Roma e l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, in cui ci si specializza in uno dei settori del restauro: materiali lignei, dipinti su supporto tessile, affreschi, carta, materiali lapidei (per citarne alcuni).
Per accedere a queste scuole la selezione è spietata e i posti a disposizione, ogni anno, si possono contare sulle dita di una mano.
Esistono poi anche altri istituti che propongono percorsi triennali e offrono la possibilità di ottenere il titolo di tecnico del restauro: una figura che può operare sul campo assistendo un restauratore qualificato.
Ci sono anche Università che propongono percorsi di Conservazione di beni culturali e le Accademie di Belle Arti che formulano corsi la cui equipollenza del titolo non è sempre garantita.

Tutto il settore è da sempre poco normato e il riconoscimento dei titoli per essere inseriti all’interno dell’elenco ministeriale dei restauratori abilitati è segnato da trafile burocratiche lunghe, contraddittorie e poco chiare.
Si pensi solo che il sopra citato elenco si è fatto attendere per circa 15 anni, ed è stato pubblicato solo alla fine del 2018 sul sito del Ministero dei Beni Culturali.

Rimane comunque tanta confusione a riguardo e aleggia, fra la categoria, una serpeggiante frustrazione dovuta principalmente al non riconoscimento del proprio titolo ed in secondo luogo alla non valorizzazione del lavoro che un restauratore compie per il proprio Paese. Si intuisce la contraddizione?

Ma cosa succede dopo esserci formati come restauratori?
Ebbene, dopo la scuola si inizia con stage ed tirocini lunghi, sottopagati (se ti va bene) o gratuiti (se ti va male), in botteghe di altri restauratori o con aziende operanti nel settore.
La concorrenza è davvero agguerrita e per questo non bisogna mai farsi sfuggire nessuna occasione anche se la retribuzione è vaga e il lavoro si trova in capo all’Italia. Il rischio, infatti, è rimanere senza lavoro e stipendio per mesi prima dell’apertura di un nuovo cantiere.

Per ottenere dei lavori si deve quasi necessariamente aprire partita Iva, con tutti i problemi e rischi del caso, e correre in giro per il Bel Paese, alla ricerca di collaborazioni che per lo più si trovano per conoscenza e non per CV.
È una professione altalenante, schiava degli appalti e per alcuni tipi di restauro vincolata alla stagionalità. Pensiamo ad esempio a lavori che si svolgono all’esterno. Questi saranno per lo più agibili d’estate mentre d’inverno si troveranno ben pochi cantieri attivi. In quest’ultimo caso l’inconveniente sarà lavorare al freddo, con a disposizione una sola tuta in tyvek a difendere il povero restauratore dal rischio d’ibernazione.
Inoltre i grandi cantieri di restauro sono sporadici e per lo più vinti da colossi nazionali che a loro volta ingaggiano restauratori a partita Iva o tramite contratti a progetto... che bella vita!

Uno dei principali committenti è lo Stato, ma anche se moltissimi beni culturali statali avrebbero bisogno di cure e manutenzione si fanno pochissime campagne di restauro perché non ci sono fondi a disposizione. L’Italia così vive la costante contraddizione di avere un’alta concentrazione di beni da conservare e l’impossibilità di dare lavoro a chi, per tutto rispetto, vanta una formazione qualificata e un’infinita gavetta lavorativa alle spalle.

Vale dunque la pena impegnarsi in una carriera di restauratore o di tecnico del restauro?
Di sicuro serve coraggio e sangue freddo.
Ma l’amara verità è che nella maggior parte dei casi nemmeno i più abili riescono a trovare lavoro in maniera continuativa e i più cambiano settore, abbandonano la professione o finiscono per dedicarsi al restauro solo per hobby.
E poi c’è da considerare l’aspetto personale, oltre che retributivo, e cioè la difficoltà di crearsi una famiglia perché, parliamoci chiaro, la professione di restauratore non permette né sicurezza economica né stabilità lavorativa a lungo termine e sotto quest’ultimo aspetto ad essere penalizzata è soprattutto la categoria femminile.

E quindi ne vale davvero la pena?
Quando qualcuno mi pone questa fatidica domanda, facendo parte della categoria sopra citata, rispondo con sottile amarezza e col cuore ferito, che la materia di studio è molto interessante ed anche la formazione sul campo, ma che se avessi saputo com’era a priori il mercato del lavoro forse avrei valutato meglio il mio percorso formativo.
Quindi una sola certezza permane: l’Italia non è ancora un Paese per i restauratori.

Una restauratrice insoddisfatta