Sul numero 306 di Graffiti (marzo/aprile 2021), Gianfranco Bondioni ha curato la recensione de "Il nazista e il ribelle" di Andrea Cominini (Mimesis). In merito a questa stessa pubblicazione, abbiamo ricevuto in redazione una sorta di "controrecensione" firmata da Alberto Panighetti, il quale si rivolge direttamente all'autore Andrea Cominini. Ve la proponiamo qui integralmente... il dibattito è aperto.
La nostra principale divergenza riguarda il giudizio se il Suo libro “Il nazista e il ribelle” riesca o no nell'obiettivo, da Lei ribadito nell'intervista su “Il giornale di Brescia” del 6 gennaio (data anche della Sua risposta alla mia lettera aperta su Facebook), di “destrutturare versioni di comodo” sulla guerra partigiana, come sarebbe l'idea preconcetta “dell'italiano buono e del tedesco cattivo” quando è avanzata a prescindere dalle risultanze storiche reali.
Io ritengo proprio che Lei non ci sia affatto riuscito per i due personaggi scelti come protagonisti della Sua storia, per i motivi esposti nella mia lettera aperta. E la sua risposta mi rafforza ancor più nella mia convinzione.
Per quel che riguarda il maresciallo Maraun, la Sua suddetta tesi infatti non può trovare alcun fondamento negli atteggiamenti che assumeva “quando egli non indossa la divisa, ed è il padre attento al focolare domestico e affettuoso con moglie e figlia”. La questione non può che riguardare invece i suoi comportamenti negli ultimi dieci mesi di guerra che passa in Valle Camonica nella gestione della lotta antipartigiana e ben lontano dalla sua famiglia. Io non l'ho “rimproverata” per non aver trovato, nella Sua meticolosa ricerca su questi dieci mesi, nessun gesto di umanità e di pietà da parte del maresciallo tedesco. Ho notato invece l'assurdità di non aver tratto, da queste evidenze di fatto risultanti anche dalla Sua ricerca, l'ovvia conclusione che non esista perciò alcun motivo per modificare il fermo giudizio negativo su questo fanatico e feroce nazista emerso da tutta la memorialistica locale.
Lo stesso discorso vale per il confronto fra Maraun ed altri suoi colleghi come il sottotenente Gerhard Wiegand che rischiava la fucilazione per tradimento nell'avvisare il primario dell'ospedale di Darfo delle prossime visite del maresciallo. Lei non se la può cavare a questo proposito con l'asettica affermazione che ciò era dovuto alla “diversa personalità di ognuno di noi” e al fatto che i due “interpretavano in modo diverso il loro ruolo”. Perché questa circostanza è un'ulteriore dimostrazione del fanatismo nazista del personaggio per il quale il Suo libro ricerca invano elementi di “bontà”. “Buono” invece era certo Gerhard Wiegand, che è stato la testimonianza della possibilità di agire, in modo completamente contrario a quello di Maraun, anche all'interno dell'esercito tedesco di occupazione. Lo so anch'io che, come dice Lei, Wiegand “secondo i nazisti, era dunque un traditore”. Ma lei non spende una parola per sottolineare il ben diverso giudizio storico e morale che si deve esprimere sui due, dal punto di vista ovviamente di una storiografia che voglia ispirarsi agli ideali antifascisti. Se per meglio spiegarmi posso “paragonare le cose piccole alle grandi”, noto che anche l'attentato a Hitler del luglio 1944 per i nazisti fu un tradimento, ma per il giudizio della storia i suoi esecutori sono eroi e martiri della libertà. Questo per dire che di fronte a certi fatti la neutralità non è consentita perché diventa complicità e assoluzione del male.
Non sta a me poi fornire altre prove sulla ferocia del Maraun dichiarata dai partigiani, che lo hanno “sperimentato” e raccontato, ferocia (per non usare altre parole ben più pesanti da loro scelte) che Lei definisce semplicemente “protagonismo”. È Lei infatti che ha scritto un libro che cerca di ridimensionare tale giudizio negativo sul maresciallo. Spettava a Lei quindi fornire le prove della presunta esagerazione contenuta su di lui in tale ben nota memorialistica.
Dell'estremo accanimento antipartigiano del Maraun è invece prova significativa anche il fatto che, sei mesi dopo la sua venuta in Valle Camonica, alla fine del 1944 egli ed i suoi immediati superiori locali giudichino fondata la richiesta e sussistenti le motivazioni per richiedere a suo favore l'ottenimento dell'onorificenza della croce al merito di guerra di “prima classe con spade”. È vero che il comando supremo delle SS per l'Italia del centro nord il 16 gennaio 1945 rifiutò tale onorificenza. Ma bisogna ricordare che il Maraun, per le sue azioni di controspionaggio in Russia, era già insignito della medaglia al merito di “seconda classe” ed il fatto che chiedesse il maggior riconoscimento, poi rifiutatogli, derivava dalla consapevolezza (sua e dei suoi superiori locali) dello spietato ruolo svolto nel contrasto alla lotta antipartigiana nella nostra valle in quei mesi, meritorio ai loro occhi di riconoscimenti al Maraun addirittura superiori a quelli ottenuti per azioni da lui compiute sul ben più duro scenario russo, che fu il fronte di guerra forse più impegnativo per i tedeschi e non certo l'ambiente camuno in cui le truppe tedesche stanziavano per riposare e prender fiato. Il rifiuto della nuova onorificenza poi era all'evidenza determinato dal fatto che nonostante tutto in quel periodo erano accaduti in valle (cioè nel territorio in cui la responsabilità dell'organizzazione della lotta antipartigiana faceva, sostanzialmente se non formalmente, capo al Maraun) fra l'altro due azioni partigiane, i cui esiti erano davvero indigeribili da parte del superiore comando tedesco perché avevano causato l'uccisione di ben otto ufficiali nell'agguato partigiano di Borno del 27 settembre 1944 e la cattura sul treno, avvenuta cinque giorni prima il 22 settembre a Niardo (in cui il più coraggioso protagonista fu proprio Mòha), di ben nove militari tedeschi. Tuttavia negli stessi giorni veniva concessa al Maraun il contentino della promozione a maresciallo, come per incoraggiarlo a rendere ancora più duro il suo pugno di ferro se voleva davvero aspirare all'onorificenza per ora negatagli.
In questo quadro credo vada inserito lo stesso assassinio di Mòha, la cui ferocia non trova altre plausibili spiegazioni. Quell'episodio però segnò una svolta per il “protagonismo” antipartigiano del Maraun, perché pochi giorni dopo iniziava la prima battaglia del Mortirolo, che dimostrò ai tedeschi di non possedere più il controllo militare sulla nostra valle e che ormai la strategia prevalente per loro poteva essere solo quella difensiva, anche perché con la primavera alle porte ci si aspettava da una settimana all'altra l'offensiva alleata oltre la “linea gotica”, che infatti nell'aprile metterà in poco tempo fine alla guerra.
Quanto alla sua ribadita tesi che nel Suo libro ci sarebbero le “prove” che l'uccisione di Mòha sia avvenuta a seguito dell'esecuzione di ordini superiori da parte di Maraun, ciò che Lei aggiunge in proposito non ritengo serva a modificare alcunchè dei motivi già da me addotti per sostenere che ciò è frutto di una sua immaginazione contrastante con una razionale interpretazione dei fatti noti relativi a quell'episodio. La Sua insistenza sulle disposizioni di Kesselring del 17 giugno 1944 nella fattispecie non hanno alcun peso determinante, perché era interesse degli stessi tedeschi cercare di carpire da Mòha, con la tortura che orribilmente praticavano a Montecchio, tutte le informazioni che certamente possedeva, prima di eventualmente eliminarlo.
Forse Lei si è reso conto di questa sua contraddizione ed allora, per raggirarla, butta lì un'altra supposizione anche peggiore e cioè che Mòha, in quei neanche venti minuti in cui fu alla fine trattenuto da solo coi tedeschi nell'osteria Rebaioli, abbia loro rivelato “tutte le informazioni che desiderassero”. Uno storico però, quando avanza delle supposizioni, ha il dovere di dire su quali elementi fattuali le basi e le ricavi razionalmente. Nella fattispecie la Sua ipotesi rappresenta invece un'affermazione balzana in contrasto con tutte le risultanze fattuali raccontate dal Suo stesso libro. Perché se Mòha avesse anche solo manifestato la disponibilità di parlare, sarebbe stato immediatamente portato al sicuro per strappargli con cura tutte le informazioni in suo possesso e che erano talmente tante (avendo lui partecipato in prima persona a numerosissime operazioni partigiane ben note ai tedeschi e raccontate nel Suo libro) da richiedere ben altro che un interrogatorio estemporaneo di pochi minuti. Inoltre è veramente curiosa l'ipotesi di un partigiano che tradisce i suoi compagni e pochi minuti dopo, arrivato alla fontana del Caròbe, mette in atto un vero e proprio raggiro che inganna Maraun sull'identità di un partigiano (Hacilì), che viene così salvato dalla cattura proprio per l'abilità di Mòha. E solo pochi metri prima di arrivare alla fontana avevano attraversato il bivio del vicolo Laffranchini, dove i miei genitori davano rifugio al partigiano Mario Maretti (Ciàm), ferito con Mòha nell'azione di pochi giorni prima contro il commissario prefettizio di Cividate: bastava un cenno di Mòha ed è facile immaginare quello che sarebbe successo.
Ma quel che ancor di più conta è che non risulta alcun elemento e testimonianza storica che quella presunta (ed inutilmente offensiva verso l'immagine di uno dei più stimati eroi partigiani locali) “confessione” di Mòha abbia provocato anche una sola ritorsione contro i suoi compagni di lotta partigiana ed i loro sostenitori popolari: più “prova” di questa dell'assurdità di tale Sua immaginazione! Ancora più inconsistente è poi il Suo altro teorema che non esista la prova che sia stato Maraun “a premere il grilletto” nel colpo di pistola che uccise Mòha. Senza ripetere anche qui l'ovvietà che uno storico sarebbe tenuto a spiegare su quali elementi basa un'affermazione così contraddittoria e contrastante con quanto in proposito si dice in vari libri (per esempio quello famoso “La neve cade sui monti” del partigiano Tani, uno dei due amici del cuore per Mòha, o quello di Feliciano Cistellini “Anni bui” a pag. 60), osservo che la smentita a quanto Lei dice si trova nel Suo stesso libro. A pag. 262 in nota riporta infatti l'affermazione contenuta nella lettera del partigiano Andrea Salvetti (Henhabràh) a Tani Bonettini secondo cui l'arma utilizzata per uccidere Mòha, con un colpo che “lasciò un impercettibile foro sopra l'occhio sinistro”, fu una “mini-pistola”. Ebbene tale arma non era certo in dotazione della truppa tedesca mentre il suo possesso era del tutto logico in Maraun, che nelle sue funzioni segrete spesso si mimetizzava in abiti borghesi, come lei stesso ricorda.
Quanto infine alle domande del Suo post scriptum è Lei stesso che avrebbe dovuto almeno prospettare una qualche risposta (capisco quanto problematica), visto che non nasconde nel libro la osservazione ben fondata che l'eliminazione violenta di Maraun giovò solo a chi aveva tutto l'interesse a che non rivelasse i nomi dei suoi delatori fascisti. Quali fossero le rivelazioni promesse da Maraun, lo ricorda Lei stesso riportando le parole di Tani nel suo libro di memorie: “Il tedesco invoca pietà, vuol parlare, rivelare i nomi di spie”.
Per finire mi consento anch'io una citazione istruttiva sui pericoli circa la frequentazione per qualsiasi motivo di “mostri”. Persino quando fosse svolta per lottare contro di loro, Friedrich Nietzsche mette in guardia chi lo fa, dicendo “deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. Se tu scruterai a lungo in un abisso, l'abisso scruterà dentro di te” (in “Al di là del bene e del male”).
Alberto Panighetti