Una Valle addormentata nell’attesa di visite ed esami


 C’è una cosa che pochi sanno e che ancora meno riescono a raccontare davvero: cosa vuol dire aspettare. Aspettare quando si ha bisogno di cura, di un esame, di una risposta. Non la risposta di una domanda qualsiasi, ma quella che ti riguarda nel profondo, quella che ti tiene sveglio la notte, quella che riguarda il tuo corpo, la tua vita. Le liste d’attesa nella sanità pubblica sono l’incubo che molte persone non riescono a raccontare, perché chi è dentro, troppo spesso, non ha voce. E chi sta fuori, non sente.
Bisogna avere pazienza, dicono, il primo buco libero è tra sei mesi ma in fondo è un lusso, perché tutti abbiamo un cugino, un collega o un vicino di casa che ha dovuto aspettare due anni. Ormai non ci stupiamo nemmeno più, anzi, il paradigma è cambiato e il privato spesso è la prima e unica scelta, e se per caso l’attesa nel pubblico è breve allora ci luccicano gli occhi: la sanità funziona davvero! Quella cosa chiamata Sistema Sanitario Nazionale, classe 1978, non è morto.
Tutt’altro, a dire il vero: sta facendo una corsa contro il tempo, per smaltire le liste d’attesa, un problema annoso, reso una vera e propria emergenza dalla pandemia - quando visite ed esami strumentali sono stati bloccati per far fronte alla situazione epidemiologica - diventata ancora più difficile da risolvere a causa dell’emorragia di personale dalle strutture pubbliche. A che punto siamo, oggi? L’ultima rilevazione di Regione Lombardia, risalente  a novembre del 2024,  parla chiaro: ci sono ancora delle prestazioni per le quali i tempi di erogazione sono tutt’altro che rispettati.
Per una polipectomia - ovvero l’asportazione chirurgica di uno o più polipi dall’intestino - con in mano una prescrizione di tipo D (che prevede la visita entro 30 giorni e, se si tratta di esame strumentale entro 60) l’attesa all’Ospedale di Esine è di 127 giorni. Lo scorso febbraio, era di 111 giorni, il che vuol dire che in un anno la situazione almeno su questo fronte è leggermente peggiorata. Una condizione ancora più critica riguarda la colonscopia: i 53 giorni di attesa dello scorso febbraio, a fine anno erano lievitati a 122.
Proseguono i problemi anche sul fronte delle tac, nonostante la situazione sia meno grave del passato e l’attesa media per le D oscilli tra i 70 giorni a Edolo e i 76 a Esine, anche queste sono aumentate leggermente rispetto a inizio 2024. La tac all’addome con impegnativa a 120 giorni viene erogata in 211, l’ecocolordoppler da fare entro 60 giorni viene garantito solo dopo 238 e per ottenere la prima visita endocrinologica nel Poliambulatorio di Pisogne servono 112 giorni, con in mano un’impegnativa che ne prevede trenta.

Quando, il diritto all’accesso alle cure mediche, sancito dalla nostra Costituzione, è diventato una corsa ad ostacoli? Quando, la salute è diventata un privilegio? E soprattutto: quando tornerà ad essere accessibile a tutti? Quello che accade a chi è in lista d’attesa non è solo un fatto tecnico, che riguarda un sistema sanitario che è cresciuto troppo e che non riesce più a gestirsi. Non si tratta di un errore amministrativo, né di una semplice inefficienza. È la distorsione di un diritto fondamentale, che nel momento in cui non viene garantito, diventa disuguaglianza. Perché chi non può permettersi di rivolgersi al privato, spesso decide di rinunciare alle cure e, quindi, alla salute. Allora si apre un divario, una frattura, una voragine che mina alla base l’articolo 32 della Costituzione, che garantisce le cure gratuite agli indigenti, e l’universalità del Sistema Sanitario Nazionale, che porta la firma di Tina Anselmi.

L’Italia intera - e la Valle non fa eccezione - è disseminata di centri medici privati, in cui il primo posto per una risonanza o una qualsivoglia visita è domani, ma non tutti possono permetterselo. Quei 150, 230 o 280 euro per qualcuno fanno la differenza, a fine mese. Per questo esiste un Sistema Sanitario Nazionale, un ticket regionale, un articolo 32 della Costituzione. Eppure, oggi il meccanismo non tiene più, si è inceppato. E la cosa più grave è che siamo in silenzio, la Valle sta attendendo pazientemente, perché questo ci è stato insegnato: che le cose “vanno così e basta”, bisogna rassegnarsi e rimboccarsi le maniche per trovare una soluzione, si va dal privato e stop. Ma l’aver accesso alle prestazioni mediche, e l’averlo nei tempi stabiliti dalle prescrizioni, è un diritto e, in quanto tale, andrebbe difeso. Manifestazioni, proteste, raccolte firme e petizioni, perché tutto questo manca? Perché non stiamo lottando per quello che un domani potrebbe esserci tolto, visto che già oggi un pezzettino alla volta sta venendo meno?

Maria Ducoli