E allora diremo che sono eroi. Anzi, eroine

«L’istruzione dei ragazzi è interesse primario della Repubblica», dichiarava Mattarella a settembre 2019, nel suo intervento durante la cerimonia per i 150 anni dell’Associazione italiana editori. 


«Qui si costruisce il futuro di questi bambini», le fa eco la ministra Lucia Azzolina un anno dopo, in visita ad una scuola della provincia di Caserta.

D’altra parte, il ministro Speranza dichiarava nel dicembre 2019 che la sanità pubblica è un diritto «fondamentale» (Forum Risk Management) e lo ribadiva a giungo 2020, incontrando gli operatori sanitari di Piacenza, sottolineando come si debba «ripartire dalla Sanità pubblica»

La pandemia ci ha fatto insomma scoprire una verità che già conoscevamo: l’esistenza di due settori fondamentali (sanità e istruzione). Quello che colpisce, è che sono entrambi settori in mano alle donne.

Perché? La risposta non è lusinghiera.

Secondo l’ultimo rapporto OCSE («Education at glance 2020»), uscito a settembre, quasi 8 insegnanti su 10, dalla scuola dell’infanzia fino all’università, sono donne. 

Come si nota dal Grafico 1, significativamente, man mano che cresce l’età degli studenti, le donne si riducono di numero. 


La situazione è solo parzialmente diversa considerando l’Europa più in generale, cambia in maniera significativa solo in alcuni stati, per lo più nordici, come la Danimarca.

I dati OCSE ci permettono di vedere una situazione che, lentamente e parzialmente, cambia: considerando solo gli insegnanti sotto i 30 anni (Grafico 2), la percentuale di donne rispetto al totale è in generale minore in tutti gli ordini di scuola, tranne che all’università, dove si raggiunge, per questa fascia di età, la aspirata parità tra i sessi.


Secondo l’organizzazione, questa predominanza è dovuta in realtà a due fattori: un pregiudizio culturale («gender bias») secondo cui le donne sarebbero più adatte a certe professioni (e infatti la percentuale di donne insegnanti è più bassa per alcune discipline come matematica, scienze e tecnologia) e, cosa che ci preme sottolineare, un fattore economico. Un insegnante maschio guadagna meno della media dei maschi con un titolo di studio universitario. Una insegnante femmina guadagna al contrario più delle sue controparti nelle altre professioni.

Insomma, la scuola è un ripiego sottopagato per un uomo, mentre se sei una donna questo cambia.

Questo è tanto più vero in Italia: mentre, che so, in Finlandia una maestra d’asilo ha uno stipendio a inizio carriera di circa 30.000 euro, in Italia si scende a 23.000. Il divario con gli altri paesi sale cambiando ordine di scuola: se si guarda la scuola secondaria di primo grado, la professoressa di Helsinki neoassunta ha un salario annuale di € 35.000, € 10.000 in più rispetto alla sua collega di Brescia.

Dati e considerazioni simili valgono per la sanità. «Il 75% degli iscritti al corso di Laurea in medicina e chirurgia è donna. Ma solo 45 dottoresse su 169 ricoprono la posizione di direttore di struttura semplice» (Sole 24 Ore, 21 ottobre 2020).

Secondo la presidente dell’associazione Women for Oncology: «la figura della donna è associata esclusivamente al ruolo del caregiver, riservando all’uomo il compito del medico, del professore e del leader».

Dal punto di vista economico, Eurostat, nel 2018, segnalava che gli uomini che lavorano nella sanità hanno in media uno stipendio annuale di € 43.367, le donne € 31.088.

In sintesi: sembra che i due settori «fondamentali», «primari», da cui bisogna «ripartire» siano delegati alle donne perché in fondo considerati occupazioni di minore importanza, e comunque non sufficientemente pagati, per un uomo.

Però, quando il COVID picchierà duro, e le dottoresse e le infermiere faranno turni ancora più massacranti di oggi, o le maestre e professoresse dovranno andare a scuola perché la gente deve lavorare da casa e non si possono avere intorno bambini urlanti, allora la cosa cambierà, eccome! 

In quel momento, infatti, diremo che sono «eroi». Anzi, «eroine».

Ivan Faiferri