Ora vorrei dire io la mia.
Sono una ragazza, un’infermiera, o almeno è ciò per cui ho studiato. Ho iniziato da pochi mesi e mai, mai avrei pensato di trovarmi ad affrontare un emergenza simile: il COVID-19. Penso nessuno fosse pronto, ma io, novella infermiera da 4 mesi, non ero preparata, né fisicamente, né psicologicamente. Sapevo che il lavoro che ho scelto non sarebbe stato tutto rosa e fiori, ma quale lavoro lo è?
Sapevo che avrei dovuto affrontare situazioni difficili, di dolore, sofferenza, lontananza, morte.. ma non così. Io lavoro in una RSA, certo non è un ospedale, ma vi prego credetemi che non c’è poi così tanta differenza. Nonostante tutte le precauzioni prese, quel maledetto virus è arrivato anche lì. Si maledetto perché costringe le persone a stare distanti, chiuse in casa, non potendo vedere le persone che amiamo. Ed è così anche per i miei “nonni” sapete, da più di un mese sono da soli, hanno noi del personale certo, ed alcuni di loro posso vedersi nelle sale comuni, ma altri sono settimane che sono soli, isolati. Abbiamo uno staff meraviglioso, che si occupano di far fare ai nostri ospiti videochiamate ai propri parenti, così si accorciano le distanze no? Beh si, alcuni di loro ritrovano il sorriso. Ma quando alcuni di loro stanno male, di quel male da cui non si può tornare indietro, i parenti possono venire a salutarli, dalla finestra.. devono mantenere le distanze, nessun ultimo bacio, nessun abbraccio, una stretta di mano, niente. Credo, anzi sono sicura, che sia la morte più dolorosa, sia per gli ospiti, che per i loro famigliari, che non possono dargli un degno saluto, né nei loro ultimi momenti, né dopo, nessun funerale, nessuna “celebrazione”.
Beh che dire, io sto vivendo ogni attimo sulla mia pelle, e come ho già detto, non sono pronta! Durante il mio percorso di studi, ho visto persone morire, soffrire, dire addio, ma stavolta è diverso. I miei “nonni”, si perché ormai io ho adottato loro e loro hanno adottato me, li conosco, ho condiviso momenti, parole, baci e abbracci, con ognuno di loro, e vederli andarsene così da soli, fa più male di tutto. Trovarli nel loro letto, con gli occhi chiusi, come se si fossero addormentati, in un lungo sonno, da cui non si sveglieranno. Quando stringi loro la mano per l’ultima volta, li saluti e magari dici loro: “A domani”, ma per loro il domani non arriva, e quando tu entri e ricominci il turno, la prima cosa che le colleghe ti dicono è: “Ah ieri è morto tizio, caio o sempronio..” e così cominci già male il turno. Oppure vedi persone che in 8 ore, passano dallo star bene, ad avere una crisi respiratoria e poi si addormentano. E tu stringi loro la mano, fino alla fine, versi qualche lacrima, le asciughi, e ricominci, perché non hai tempo di piangerti addosso, ci sono altre persone da visitare, da controllare, a cui somministrare la terapia, a cui stringere la mano…
Il momento peggiore credo sia quando tolta la divisa, torno ad essere la ragazza di sempre, ecco, in quel momento vengo sommersa da tutte le emozioni che non ho potuto vivere durante il turno. Rabbia, tristezza, felicità, anche se poca, ma bisogna pur trovare qualcosa di positivo, o non so se riuscirei ad andare avanti; inizi a chiederti se hai fatto tutto ciò che potevi fare o se magari, facendo scelte diverse, avresti potuto cambiare il finale. Ma poi ti rendi conto che non hai sbagliato nulla, che nonostante avessi cambiato qualcosa, sarebbe andata così, e allora piangi, mandi un bacio al vento e ti prepari psicologicamente al turno successivo.
È questo quello che da circa due mesi, è la mia vita. E voglio essere sincera, non è facile, so che non lo è per nessuno, ma più di una volta mi sono lasciata sopraffare dalle mie emozioni, e ho pensato di non essere fatta per questo lavoro. Poi però tornando al lavoro, ho visto i miei nonni, mi sorridevano, altri mi ringraziavano di essere lì.. sono piccole cose che non mi fanno mollare. Perché ci sono giorni pieni d’amore che ti danno il coraggio di andare avanti per tutti gli altri giorni.
Sono poche parole, magari sconnesse, ma scritte di getto, con il cuore.
(Lettera firmata)
Sono una ragazza, un’infermiera, o almeno è ciò per cui ho studiato. Ho iniziato da pochi mesi e mai, mai avrei pensato di trovarmi ad affrontare un emergenza simile: il COVID-19. Penso nessuno fosse pronto, ma io, novella infermiera da 4 mesi, non ero preparata, né fisicamente, né psicologicamente. Sapevo che il lavoro che ho scelto non sarebbe stato tutto rosa e fiori, ma quale lavoro lo è?
Sapevo che avrei dovuto affrontare situazioni difficili, di dolore, sofferenza, lontananza, morte.. ma non così. Io lavoro in una RSA, certo non è un ospedale, ma vi prego credetemi che non c’è poi così tanta differenza. Nonostante tutte le precauzioni prese, quel maledetto virus è arrivato anche lì. Si maledetto perché costringe le persone a stare distanti, chiuse in casa, non potendo vedere le persone che amiamo. Ed è così anche per i miei “nonni” sapete, da più di un mese sono da soli, hanno noi del personale certo, ed alcuni di loro posso vedersi nelle sale comuni, ma altri sono settimane che sono soli, isolati. Abbiamo uno staff meraviglioso, che si occupano di far fare ai nostri ospiti videochiamate ai propri parenti, così si accorciano le distanze no? Beh si, alcuni di loro ritrovano il sorriso. Ma quando alcuni di loro stanno male, di quel male da cui non si può tornare indietro, i parenti possono venire a salutarli, dalla finestra.. devono mantenere le distanze, nessun ultimo bacio, nessun abbraccio, una stretta di mano, niente. Credo, anzi sono sicura, che sia la morte più dolorosa, sia per gli ospiti, che per i loro famigliari, che non possono dargli un degno saluto, né nei loro ultimi momenti, né dopo, nessun funerale, nessuna “celebrazione”.
Beh che dire, io sto vivendo ogni attimo sulla mia pelle, e come ho già detto, non sono pronta! Durante il mio percorso di studi, ho visto persone morire, soffrire, dire addio, ma stavolta è diverso. I miei “nonni”, si perché ormai io ho adottato loro e loro hanno adottato me, li conosco, ho condiviso momenti, parole, baci e abbracci, con ognuno di loro, e vederli andarsene così da soli, fa più male di tutto. Trovarli nel loro letto, con gli occhi chiusi, come se si fossero addormentati, in un lungo sonno, da cui non si sveglieranno. Quando stringi loro la mano per l’ultima volta, li saluti e magari dici loro: “A domani”, ma per loro il domani non arriva, e quando tu entri e ricominci il turno, la prima cosa che le colleghe ti dicono è: “Ah ieri è morto tizio, caio o sempronio..” e così cominci già male il turno. Oppure vedi persone che in 8 ore, passano dallo star bene, ad avere una crisi respiratoria e poi si addormentano. E tu stringi loro la mano, fino alla fine, versi qualche lacrima, le asciughi, e ricominci, perché non hai tempo di piangerti addosso, ci sono altre persone da visitare, da controllare, a cui somministrare la terapia, a cui stringere la mano…
Il momento peggiore credo sia quando tolta la divisa, torno ad essere la ragazza di sempre, ecco, in quel momento vengo sommersa da tutte le emozioni che non ho potuto vivere durante il turno. Rabbia, tristezza, felicità, anche se poca, ma bisogna pur trovare qualcosa di positivo, o non so se riuscirei ad andare avanti; inizi a chiederti se hai fatto tutto ciò che potevi fare o se magari, facendo scelte diverse, avresti potuto cambiare il finale. Ma poi ti rendi conto che non hai sbagliato nulla, che nonostante avessi cambiato qualcosa, sarebbe andata così, e allora piangi, mandi un bacio al vento e ti prepari psicologicamente al turno successivo.
È questo quello che da circa due mesi, è la mia vita. E voglio essere sincera, non è facile, so che non lo è per nessuno, ma più di una volta mi sono lasciata sopraffare dalle mie emozioni, e ho pensato di non essere fatta per questo lavoro. Poi però tornando al lavoro, ho visto i miei nonni, mi sorridevano, altri mi ringraziavano di essere lì.. sono piccole cose che non mi fanno mollare. Perché ci sono giorni pieni d’amore che ti danno il coraggio di andare avanti per tutti gli altri giorni.
Sono poche parole, magari sconnesse, ma scritte di getto, con il cuore.
(Lettera firmata)