Diario dalla Valle Rossa: Diario della coscienza storica

Da qualche settimana il mio fedele zaino peruviano mi lancia occhiate sconsolate dal fondo del letto.
Ma non è tempo di uscire e io sono comunque troppo impegnata per sentirmi persa e reclusa: le lezioni online, la tesi, qualche libro da leggere riesumato dalla libreria dei miei; i canti di Dante ripescati dai tempi andati del liceo, i disegni..
E le pagine di un vecchio quaderno che riempio quasi quotidianamente con riflessioni, considerazioni, emozioni, notizie e ricordi; ho deciso di battezzarlo “Diario della coscienza storica” e ne state leggendo in questo momento un estratto.
È la mia stazione personale dove cerco di fermare gli eventi, che scorrono veloci dalle bocche dei conduttori e sugli schermi dei televisori, ma che mai riesco a far sostare per un po’ anche nella mia coscienza e nella mia memoria.
Mi è necessario adesso, in questo tempo di rigida quarantena in cui ogni contatto ci è precluso, cercare un contatto con gli eventi.
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Credo che, in questo tempo, un po’ di blasfemia accomuni tutti noi, mentre cerchiamo di ritrovare un po’ di controllo e sicurezza profilando questa situazione con ipotesi e convinzioni: un’epidemia, un’influenza, l’ennesimo avverarsi della profezia dei Maya sulla fine del mondo, un complotto dei cinesi, un virus da laboratorio o un alito di vento del mondo che si sta prendendo un po’ di respiro.
Ci guardiamo da sopra la mascherina e ci scambiamo un cenno se ci incontriamo al supermercato, in farmacia o sul pianerottolo di casa.
Ma anche protetti è difficile che qualcuno nel porti un saluto si fermi un frangente di secondo a galleggiare nel tuo sguardo: quasi ci accompagnasse il timore di contagiarsi anche con gli occhi.
O forse più semplicemente rimangono la parte più temibile del viso perché più trasparente: specchio dell’apprensione, oggi più che mai.
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Questo fenomeno incredibile, tanto più incombente quanto più invisibile.
Mi affascina come ci stia costringendo, al pari di una silenziosa forza centripeta, verso il centro: il nostro paese, le nostre case, le nostre stanze; con le spalle al muro al centro del nostro silenzio, della nostra solitudine, della nostra creatività, pro attività, positività.
E’ una situazione paradossale questa e noi rassegnati pendolari tra il sentimento d’impedimento e curiose possibilità.
Ci porteremo questi mesi appesi dentro, come la cornice del nostro più attuale e sincero ritratto: chi ricorderà questa pandemia come a uno spietato detrattore di tempo, denaro e vita; chi come ad una improvvisa decelerazione della frenesia e portatrice di più silenzio, attenzione e carezze per i propri cari.
Chi racconterà di come si stava chiusi in casa per paura di essere contagiati dagli altri; chi di come si stava chiusi in casa per paura di contagiarli, gli altri.
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In questo girone dantesco di pena, morte e sofferenza - dove, costretti dalla legge del contrappasso per analogia, un male invisibile ci toglie il respiro come prima la frenesia - va ridefinendosi un concetto essenziale, vitale: quello di libertà.
Libertà è accettare con non esistiamo solo noi, è provare dei sentimenti che ci portano a dare la giusta dimensione a ciò che vogliamo, pensiamo, facciamo;
libertà è accettare che non tutto è nelle nostre mani, che non siamo onnipotenti;
libertà è fare spazio al dolore per ciò che non resta e se ne va.

Fortuna invece è notare che, in casa, delle cose importanti non è cambiato niente: si bisticcia come sempre e poi ci si fa una carezza per fare pace, si piange per preoccupazione, commozione o gioia, di fronte ad un dolore, a una riflessione o a una poesia.
Fortuna è vedere mio padre che ritorna dal supermercato avvolto in uno scafandro di protezione mentre io e mia mamma facciamo la maionese a ritmo “delle mie mazurke” francesi.
Fortuna è gioire per un attimo disegnando farfalle sullo schermo del computer e guardandole spiccare il volo - ma questo solo nell’attesa di poter di nuovo vedere volare quelle vere.
Fortuna è chiudere le ante e restare una manciata di secondi a bearsi nel profumo di umida primavera, di quello legnoso di un camino lontano ancora acceso e raccoglierli nei ricordi, in attesa di respirarli di nuovo quando sarà il momento.

L’unico interrogativo che mi porto appresso e non mi consola: in tutta questa situazione cosa ne è dei poveri, i profughi e i senza tetto?

Elena Zeziola