Declinare la differenza. Emendamento bocciato ma in 152 ci hanno creduto


 Abbiamo ancora nelle orecchie l’applauso avvilente dei senatori nel momento in cui il disegno di legge Zan è stato bloccato in Senato, segno di sconfitta dei diritti civili. Una manciata di mesi dopo, la scena è simile. Nella seduta del 27 luglio è stato bocciato l’emendamento che prevedeva  l’introduzione di un linguaggio inclusivo all’interno del Regolamento, proposto dalla senatrice Maiorino (M5S).
Cambiamento più che necessario, visto che Il Regolamento del Senato è «figlio di un periodo in cui le donne erano una presenza sporadica ed eccezionale all'interno delle istituzioni e della rappresentazione democratica», come anticipato dalla senatrice nel momento della discussione della proposta. Oggi le cose sono cambiate, le donne hanno guadagnato diritti, possibilità, posizioni. A mancare loro è una denominazione corretta.
L’emendamento prevedeva che il Consiglio di presidenza stabilisse i criteri generali in modo che nella comunicazione istituzionale e nell’attività amministrativa fosse assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio. Come sottolineato dalla senatrice in aula, non voleva essere un modo per imporre rigidamente la declinazione al femminile, avrebbe semplicemente dato alle donne la possibilità di scegliere come definirsi.
Perché di questo si tratta: avere la possibilità di scegliere.
«Laddove esiste la scelta, c'è democrazia; laddove il 52 per cento della popolazione è espresso e rappresentato, c'è democrazia» spiega Maiorino in aula. Un’ aula sorda, perché in risposta Schifani commenta affermando che, a suo parere, si tratta di un argomento incompatibile che avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile. La parità di genere, per il nostro Senatore è qualcosa di inammissibile. Perché alla fine si tratta di questo, della parità, che si può raggiungere anche attraverso il linguaggio. Non si tratta di fronzoli inutili, la lingua ha il potere di cancellare la presenza femminile dal discorso culturale, politico o amministrativo che sia. Raschiare via le donne dalle frasi che pronunciamo, dai regolamenti istituzionali, significa oscurare la realtà, dimenticare quel 52%.
«L'articolo 3, che è il caposaldo della nostra Costituzione e del patto repubblicano, vieta tassativamente le discriminazioni e questa del linguaggio è una discriminazione assoluta perché è la cancellazione del femminile» commenta De Petris, accaparrandosi uno scroscio d’applausi. Ma non basta, arriva il momento della votazione, a scrutinio segreto su richiesta di Fratelli d’Italia. 152 voti favorevoli, 60 contrari e 16 astenuti: bocciato. Serviva la maggioranza assoluta di 161 voti. I numeri sono comunque incoraggianti, i più erano a favore dell’emendamento. Vuol dire che qualcosa si sta muovendo, in fin dei conti.  Non sappiamo chi abbia votato contro o si sia astenuto: il senatore Malan aveva richiesto il voto segreto. Non ci è dato sapere quale sia l’opinione in tema di rappresentazione di genere dei politici che ci rappresentano. La segretezza della votazione ci mostra come non sia solo una questione linguistica, quanto etica.
Dopo la bocciatura dell’emendamento possiamo chiederci se ci sia speranza per il futuro? Sì. Potremmo dire che il 27 luglio, a Palazzo Madama, sia stato negato un passo di civiltà, oppure che il 27 luglio, a Palazzo Madama, in 152 si siano schierati dalla parte del linguaggio inclusivo.

Maria Ducoli