Emergenza nell’emergenza: abortire in pandemia non era un diritto.

Rouen, 1963: «Ora so di essere determinata ad andare fino in fondo, qualsiasi cosa accada, nello stesso modo in cui lo ero, a ventitré anni, quando ho strappato il certificato di gravidanza» scrive Annie Ernaux in L’evento, una denuncia letteraria dell’autrice stessa a cui, da giovane, era stato proibito per legge di disporre del proprio corpo.

Italia, 2020: il Paese entra in lockdown, le strade sono deserte e gli ospedali pieni, così pieni che qualcuno deve stare a casa. Tra reparti chiusi, limitati o trasferiti e scarsità di informazioni, accedere all'interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è sempre più difficile. Si tratta di un’emergenza dentro l’emergenza, che coinvolge inizialmente le zone più colpite con la Lombardia nel mirino - e poi, a macchia d'olio, si estende in tutt’Italia, sommandosi all’altro grande problema tutto italiano: l’alto tasso di obiettori di coscienza tra i ginecologi. Sono circa il 70%, secondo quanto è emerso da una relazione del Ministero della Salute sull’applicazione della legge 194, compilata nel 2014. In Gran Bretagna la percentuale di obiettori all’interno del personale medico si aggira intorno al 10%, zero in Svezia. Dati che fanno riflettere sull’arretratezza culturale del nostro paese, che ancora non permette alle donne di avere voce in capitolo sul proprio corpo. L’articolo 9 della L.194/1978 parla del diritto all’obiezione di coscienza, diritto sul corpo di altre. Forse si dovrebbe iniziare a parlare del diritto alla sanità gratuita e garantita a tutti, senza distinzioni di età, etnia o genere. Dovremmo parlare di consultori dove la libertà di scelta non viene incanalata in percorsi psicologici e motivazionali o filtrata da associazioni cristiane o pro-life che inneggiano spesso il diritto alla vita: ma a quella delle donne, chi ci pensa?

L’IVG sulla carta è una di quelle prestazioni in ambito ostetrico e ginecologico non differibile, eppure in pandemia qualcosa cambia: il diritto di essere padrone del proprio corpo viene, ancora una volta, sottratto alle donne.
In caso di positività, veniva detto loro di aspettare. Ritenta al prossimo tampone e sarai più fortunata. Intanto i giorni passavano, lenti e chiusi. Il tempo sembrava essersi fermato, eppure qualcosa continuava a crescere nel ventre delle donne lasciate sole. Cresceva e non poteva essere fermato, non si poteva fare nulla se non aspettare e sperare in un tampone negativo prima dei fatidici novanta giorni entro i quali è possibile abortire.

Quarant’anni dopo le lotte femministe che portarono ad una regolamentazione dell’IVG, il diritto delle donne di abortire è stato messo in discussione da chi ha sfruttato il Covid-19 per negarlo. Un’emergenza è meno preoccupante solo perché interessa un gruppo di persone ben definito? Solo perché all’interno di questo gruppo ci sono le donne, i cui diritti sono sempre un optional?
Per giustificare la soppressione dell’IVG, alcuni ospedali hanno usato il decreto del 9 marzo 2020, in cui si legge che si “possono rimodulare o sospendere le attività di ricovero e ambulatoriali differibili e non urgenti”. I gruppi Pro-Vita hanno lanciato una raccolta firme per sospendere la procedura, affermando: “L’aborto, non solo non sarebbe un servizio strettamente indispensabile né di emergenza, ma il suo costo elevatissimo andrebbe a gravare sul sistema sanitario nazionale in un periodo già complicato anche economicamente.”

Ha preso parola anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dichiarando l’IVG un servizio essenziale nonostante la presenza della pandemia e ricordando agli Stati colpiti di permettere l’accesso all’aborto sicuro.

L’associazione Obiezione Respinta, attiva su tutto il territorio nazionale, ha denunciato la difficoltà delle donne di poter decidere sul proprio corpo e sulla propria vita durante la pandemia, proponendo una serie di modifiche alla legge che permettano il regolare accesso al servizio, qualsiasi sia la situazione sanitaria del Paese.
Prima fra tutti compare la richiesta di eliminare la settimana di riflessione. Infatti, se una donna decide di interrompere la gravidanza e “non viene riscontrato il caso di urgenza, il medico del consultorio, o della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia […] la invita a soprassedere per sette giorni”, come riportato nella legge 194/78. Un invito che non c’è quando si vuole intraprendere la decisione opposta. Perché alle future madri non viene detto di prendersi una settimana di tempo per riflettere sulla propria scelta? In fondo, mettere al mondo un figlio non è una decisione che ti stravolge la vita?
Le donne non vogliono soprassedere per sette giorni, vogliono non dover rendere conto della loro scelta. Vogliono che l'accesso all’IVG sia garantito e sgombro da ostacoli, proprio come lo è il proseguimento della gravidanza. Vogliono servizi che non le giudichino.

L’altra richiesta è la possibilità di effettuare l’aborto farmacologico nei consultori pubblici. La prassi prevede l’assunzione di due farmaci: in un primo momento il Mifepristone, chiamato anche RU486, che interrompe il sostegno ormonale alla gravidanza provocandone l’interruzione, mentre a circa 48 ore di distanza, la prostaglandina, che provoca contrazioni ed espulsione del contenuto dell’utero. Il problema si pone nel momento in cui la turnazione del personale medico-sanitario in molti ospedali può portare alla difficoltà di incontrare in due momenti diversi operatori non-obiettori. Cosa si fa quando si aspetta la somministrazione della seconda pillola che nessuno vuole dare? E soprattutto: dov’è il riconoscimento del diritto all’aborto?
Questo ostacolo potrebbe essere superato permettendo ai consultori pubblici la prescrizione della RU486. Proposta che, però, in Italia forse non è percorribile: molti sono stati chiusi, i sostegni ricevuti da parte dello Stato irrisori o addirittura inesistenti. Non possono occuparsi dell’IVG se prima non ricevono finanziamenti.

Italia, 31 marzo 2022: fine dello stato di emergenza. Si può tirare un sospiro di sollievo, una è andata. Resta un’altra emergenza a cui dobbiamo ancora fare fronte. Resta da garantire alle donne il diritto di scegliere liberamente sul proprio corpo e per la propria vita.