Silvia, la calciatrice dalignese che è stata sulla vetta d'Europa

 

"Ma da quando le femmine giocano a calcio?". Forse anche a te sarà capitato di sentire questa domanda. Graffiti ha deciso di approfondire l'argomento con una serie di interviste a giocatrici, arbitri, allenatori/allenatrici, dirigenti che si occupano di calcio femminile in Valle Camonica. È un mondo complesso, che lotta contro il pregiudizio. Ma sono anche storie di sport e di donne che affermano in questo modo la loro passione, la loro determinazione, la loro indipendenza. Sì, le femmine giocano a calcio, e spesso anche meglio dei colleghi maschi.
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La trascrizione della intervista ha subito qualche modifica per chiarezza e lunghezza.

Silvia Toselli, oggi, è una albergatrice dell’alta Valle Camonica. È ritornata sui monti da qualche anno, dopo avere abbandonato una carriera da calciatrice, nel Verona, una delle squadre della serie A femminile che, negli anni in cui lei giocava, ha vinto di più.

È una persona diretta, che parla della sua esperienza, che l’ha vista giocare ai massimi livelli in Italia e in Europa, con una semplicità disarmante.

Di sicuro non fa giri di parole in apertura della nostra intervista: «Se ci pensi», mi dice, «in Italia esiste solo il calcio, come sport. Maschile, naturalmente. È fin troppo, gli altri sport sono praticamente inesistenti. E il calcio femminile, poi... I media, la gente, si sono accorti che esisteva solo quando, nel 2018, la squadra maschile non si è qualificata. Ma adesso che si sono stati gli Europei, e la nazionale maschile ha vinto, nessuno sa nulla di come è andata alle nostre calciatrici».

Come sei diventata una giocatrice?

Avevo 17 anni, ed ero in vacanza in un villaggio turistico. Ho fatto questo torneo tre contro tre di «calcio brasiliano» insieme a mio fratello Antonio e a mio papà. Il caso ha voluto che ci fosse a vederci un signore di Bardolino. Alla fine del torneo, mi ha detto: ‘dovresti provare a fare un provino perché lì dove abito io hanno appena vinto lo scudetto, con la squadra delle ragazze’.

Mi hanno fatto il provino e mi hanno preso. Tutti i fine settimana scendevo fino a Verona per la partita, e in settimana facevo gli allenamenti con la squadra maschile del Breno.

L’anno successivo, Antonio è andato a Verona per l’università, e a quel punto abbiamo preso casa e vissuto insieme, io ho fatto l’ultimo anno giù, a Garda, e intanto giocavo.

Qual era il tuo ruolo?

Giocavo sulla fascia destra.

E come è andata?

Non è semplice, fare la calciatrice. Nonostante tu non sia considerata professionista, ti alleni tutti i giorni, a volte giochi in settimana, magari quando la squadra è impegnata nelle coppe… è un lavoro, a tutti gli effetti.

Sono restata al Bardolino, che nel frattempo era diventato Verona, fino a 25 anni e come soddisfazioni me ne sono tolte tante. Siamo stati in Svezia, in Spagna… una bella esperienza.

Il Verona era una delle squadre più forti in Italia, e in quegli anni abbiamo vinto diversi scudetti e siamo arrivati alle semifinali di Champions League. Ma le squadre forti, nella Serie A italiana, erano poche. Una volta il calcio femminile funzionava così».

Parli della tua esperienza come se fosse avvenuta in un’altra epoca...

È un mondo che ha avuto una crescita enorme in poco tempo. Io sono stata fortunata, perché giocavo in una squadra che era già allora tra le più forti e quindi c’erano sponsor, avevo un rimborso spese (perché quello delle calciatrici non è considerato stipendio…) e riuscivo a mantenermi. All’inizio, quando giocavo, ogni due per tre le giocatrici si infortunavano. E pensa che noi avevamo preparatore atletico, nutrizionista, eravamo seguite, ed era la rarità – ma dovrebbe essere normalità se fatto a quel livello. Giocavamo un sacco e, se non sei allenata bene, rischi di comprometterti il fisico.

Per lo meno, a livello di infortuni, se come calciatrice del Verona ti facevi male, la squadra ne rispondeva: venivi operata, seguita… se ti spacchi un crociato e non sei seguito, non recuperi più. Noi avevamo un centro di fisioterapia pagato dalla squadra, ma in altre realtà non era così: ti arrangiavi e dovevi pure pagarti l’intervento e seguire da sola la riabilitazione.

E adesso, è cambiato quel mondo?

Adesso la cosa è diversa, sei più tutelata. Meno male che il calcio ha preso questa piega qua. Lo vedi anche perché i risultati sono diversi. La nazionale italiana non ha mai ottenuto grandi risultati, ma da quando le squadre di calcio maschile hanno iniziato a supportare anche le squadre femminili, il miglioramento c’è stato.

Ad esempio, storicamente, rispetto alle squadre nordiche abbiamo avuto sempre una prestanza fisica inferiore: ma adesso questa si è ridotta, proprio per i miglioramenti del calcio.

Il fatto che le società calcistiche abbiano anche squadre femminili è una bella cosa: puoi utilizzare gli stessi spazi, hai gli stessi servizi.

Come mai questa differenza tra calcio maschile e femminile?

Tra una partita di calcio femminile e maschile la tecnica non è differente, però cambiano la velocità di gioco e la potenza dei lanci.

Non è detto però però che il calcio femminile debba essere una specie di copia povera di quello maschile: se no non ti spieghi perché all’estero ci sono così tante squadre femminili.

Quello che manca in Italia è la cultura delle ragazze che giocano a calcio. Pensa all’America: la nazionale femminile è seguita più che quella maschile. Se ci fosse una mentalità diversa anche il calcio femminile potrebbe essere diverso.

In Italia, un paese come Ponte di Legno se la sogna una squadra di calcio femminile – ma in Svezia, o in Germania, sarebbe una cosa normale. Anche gli stadi mezzi vuoti, sono una caratteristica del calcio femminile italiano: quando ci siamo qualificate alle semifinali col Verona, erano arrivate quindicimila persone a vederci giocare al Bentegodi. Per noi era stato straordinario. Ma quando eravamo state a Francoforte per l’andata, c’era un pubblico del genere e per le ragazze tedesche era una cosa normale.

All’estero è proprio un’altra cosa: hai le ragazzine che iniziano 6 anni a giocare, possono giocare anche senza andare a tre ore di distanza da casa loro.

E come fanno le calciatrici italiane a resistere?

Ah, bella domanda. Io ho smesso relativamente presto, a 25 anni: ma proprio perché quel mondo è totalizzante, devi fare solo quello. Sei lì che giochi ma è come se tu non esistessi a livello lavorativo: una giocatrice di Serie A arriva magari a 35 anni senza un mese di contributi versati, senza alcuna esperienza al di fuori del calcio, e senza nemmeno aver messo da parte chissà che ricchezza.

Così, quando ho avuto la possibilità di diventare imprenditrice [oggi Silvia gestisce l’Hotel Garnì Alta Valle, sito nel Comune di Vione, ndr], ho scelto quella strada.

È cambiato qualcosa, in questo senso, negli ultimi anni?

(Silvia storce la bocca, incerta) Mah, se il calcio femminile allora avesse avuto allora le possibilità di sbocco che ha adesso, forse avrei continuato ancora per qualche anno.

Non è però un mondo di guadagni facili. Alcune giocatrici di oggi della Juve hanno giocato con me, come Cristiana Girelli, guadagnano più dagli sponsor che dal loro stesso ‘stipendio’.

Altre sono riuscite a costruirsi una carriera nel mondo del calcio: Raffaella Manieri ha giocato con me, poi ha fondato una scuola di calcio e quindi ha potuto continuare. La stessa cosa ha fatto Patrizia Panico, che oggi allena le squadre maschili.

Poi ci sono i personaggi come Barbara Bonansea, che ha scritto un libro, è seguita su instagram… E se ci pensi ha avuto questo seguito perché nella prima partita dei mondiali e ha fatto due gol e da allora tutti hanno parlato di lei. Ma sono casi rari.

E come si fa a cambiare?

Un miglioramento si avrebbe se anche le calciatrici fossero riconosciute come professioniste. Mi chiedo, viste le cifre di ingaggio di certi calciatori uomini, cosa conterebbe ad una grande squadra pagare l’INPS alle ragazze. Ci vogliono assicurazioni, contributi, diritti. Altrimenti è un controsenso. Basterebbe un ventesimo di quanto viene investito nel calcio maschile.

La disparità ti fa rabbia se ci pensi. Prendi Melania Gabbiadini, che oggi è una ex giocatrice: quando abbiamo giocato contro il Francoforte, era considerata una delle migliori della Serie A, l’avevano addirittura chiamata negli USA… Nella sua carriera lei ha guadagnato probabilmente quello che il fratello [Manolo, giocatore della Sampdoria, ndr] guardagna in qualche mese. E il fratello è bravo, ma è uno dei tanti. È paradossale ma è così.

E al di là delle difficoltà economiche, quali sono gli altri ostacoli che deve affrontare una ragazza che gioca a pallone?

Il fatto stesso che una ragazza giochi, per noi è strano.

Quando avevo 6-7 anni, ho abitato a Varese: lì mio fratello era nei pulcini, e io giocavo con loro. Mi ricordo che mi cambiavo nello spogliatoio dell’allenatore. Allora non ci pensavo, ma ero una bambina tra venti maschi. Tra i bambini è normale, magari ti fanno la battutina… se non sei abbastanza forte, sono cose che ti possono far male.

Io ricordo che quando andavamo a fare le partite di Champions o le trasferte, e si prendeva l’aereo, la gente ci fermava e diceva: «Squadra di pallanuoto?», «Squadra di pallavolo?», e quando noi rispondevamo: «No! Squadra di calcio!», ci trovavamo davanti delle facce stupefatte.

La scuola riconosce in qualche modo le calciatrici?

In generale a scuola non sei agevolato. In Italia lo sport è considerato solo a parole, ma in concreto... Quando mi sono trasferita ho penato per finire il liceo. Il sabato saltavo sempre le lezioni perché avevo le partite. Per fortuna ho trovato insegnanti che apprezzavano un po’ lo sport: ma se avessi soltanto incontrato altri tipi di persona non sarei stata per nulla agevolata. Non esistono permessi speciali, non viene riconosciuto il tuo impegno. Perfino quando ero in Champions e dovevo andare via non ho goduto di nessun trattamento particolare. Così devi scegliere tra il calcio e la tua istruzione: e così tantissime persone hanno smesso prima di quanto previsto, per questo motivo qui.

Come è la situazione qui in Valle?

Quando ho smesso di giocare e sono venuta qui ho fatto alcuni anni con la squadra di Vezza [d’Oglio, ndr], poi, per via dei vari impegni impegni, io e le altre ragazze non siamo più riuscite a formare la squadra.

Quello che ho notato è che quegli anni non ci sono state abbastanza ragazzine che hanno detto «provo». La squadra c’era ma mancavano le giocatrici. Quindi… come si fa?

Le giocatrici più giovani che avevamo oggi fanno l’università ma erano in tre, come potevano continuare da sole? È mancato il ricambio, ed è un peccato.

Questa debolezza del calcio dilettantistico camuno ha delle conseguenze per il calcio della Serie A?

Considera che poche ragazze nel calcio femminile vengono da posti come i nostri, perché nelle città hai la squadra femminile, ma se ti sposti in paesi come Darfo o Breno non c’è niente.

La differenza ci sarebbe se in valle ci fosse una squadra che già a 6-7 anni prende le bambine per giocare. Allora lì sì che una ragazza può crescere, perché se ti faccio iniziare a 6 anni, quando arrivi a 15 sai già anche giocare. La cultura nel paese fa tanto: c’è ancora molto da lavorare, insomma.

Ti manca qualcosa della tua vita da calciatrice?

Il calcio e la partita in sé mi mancano… però tutto il resto mi manca-e-non-mi-manca. O hai la passione e vedi solo quello, oppure se hai passioni diverse, ci sono sport che ti chiedono di meno del calcio. È un lavoro a tutti gli effetti.

Poi c’è l’aspetto della squadra. Devi sapere convivere all’interno di un gruppo. Quando tu giochi a calcio e sei all’interno di quel gruppo, tu vivi 24 ore su 24 e sei sempre insieme: io non ho mai avuto screzi, ma ricordo di compagne che se la sono legata al dito per sempre.

Però ricordo anche che, quando abbiamo saputo formare un gruppo squadra unito, siamo arrivate in semifinale di Champions -era stato un risultato straordinario per il calcio di allora. Siamo andate in Inghilterra a giocare contro l’Arsenal, che allora era campionessa uscente, e abbiamo pareggiato 3-3, un risultato storico. Questo era dovuto anche al gruppo: se hai il singolo campione, ma non hai la squadra, la tua resa è comunque inferiore. Lì si era creato un gruppo coeso e quello ha fatto la differenza.

Intervista a cura di Ivan Faiferri