Che lingua parlano i giornalisti? Di sessismo e scrittura

Scrivere è cercare la parola giusta. Passeggiare intorno al tavolo finchè un’illuminazione improvvisa non ti investe facendoti trovare quella più corretta. Scrivere per i giornali è fare un disegno del mondo, o almeno di una parte. Non avevo realizzato totalmente la grande responsabilità - e opportunità - che avevo finché non mi imbattei nell’intervento della ricercatrice Monia Azzalini nella recentissima pubblicazione Language, Gender and Hate Speech. Certe illuminazioni arrivano e ti investono . «I giornalisti hanno il potere di rappresentare un mondo più realistico, dove le donne hanno fatto grandi passi avanti». Ogni volta che ci sediamo e lasciamo scorrere le dita sulla tastiera, trasformando pagine bianche in articoli, abbiamo la straordinaria possibilità di arrivare alle persone, non solo trasmettendo loro notizie e informazioni ma anche - e soprattutto - facendo nascere delle domande. Perché è questo che ognuno di noi si auspica di fare nel momento in cui lascia che la luce azzurrognola del foglio Word illumini il viso in attesa di trovare la parola giusta. Vogliamo dire la nostra, a volte immaginando i nostri lettori e rivolgendoci direttamente a loro, altre facendo finta che non esistano, in modo da poter scrivere senza troppa reticenza. E allora i nostri articoli diventano della polvere che vogliamo lanciare al vento, del polline che chiediamo alla primavera di diffondere. È la nostra lettera al mondo, che mai scrisse a noi, per parafrasare i versi della Dickinson.


E poi è anche una missione.

La stampa e i mass media possono contribuire sia alla sfida che al superamento degli stereotipi che al loro rafforzamento, lo dicono chiaramente le accademiche Giuliana Giusti e Monia Azzalini nel loro intervento in merito alla violenza di genere nei media, nella monografia Guardiamola in faccia. I mille volti della violenza di genere. Già Alma Sabatini, negli anni ‘80, sottolineava come la lingua non fosse un semplice strumento di comunicazione e trasmissione delle idee, ma soprattutto uno strumento di percezione e classificazione della realtà. Qualunque matricola si approcci alla linguistica, si troverà a studiare le idee di due uomini americani che hanno audacemente avanzato l'ipotesi - conosciuta come Ipotesi di Sapir-Whorf - secondo la quale il linguaggio influenza il nostro modo di percepire il mondo. Se è vero che siamo quello che mangiamo, è altrettanto vero che siamo anche quello che diciamo.

A volte, il nostro uso sessista dell’italiano viene mascherato dall’uso del genere maschile con valore non marcato, ovvero per entrambi i sessi. Non ci pensiamo, ma questo porta a cancellare completamente la presenza delle donne. Tante volte la scusa è sempre la stessa “non si può sentire”, o “è cacofonico” , alcune persone si mostrano con la risposta pronta “la funzione, il lavoro, non ha genere”. Siamo tutti d’accordo, peccato che non si possa dire lo stesso per chi quel lavoro lo svolge. Non è solo una questione linguistica, è una questione di rispetto. «Nominare al femminile la maestra, l’impiegata, l’infermiera, e non (o meno) l’assessora, la sindaca, la notaia o la ministra, significa escludere le donne nel discorso culturale su ambiti di potere e/o status sociale» scrive la linguista Giuliana Giusti.

Non si limita a scriverlo, ogni giorno va in Università e cerca di trasmettere la sua passione e il suo impegno anche in questo ambito a chi c’è dall’altra parte della cattedra o - visto il periodo - dello schermo. Nelle sue lezioni impari che la linguistica non è qualcosa di statico come sembra, ma che può e deve cambiare il mondo. E il primo step per farlo è cambiare il nostro linguaggio.

 

Negli ultimi tempi, si sono presi tutti il diritto di schierarsi dalla parte della purezza della lingua, diventando i custodi valorosi di questo sacro Graal per preservarne l’autenticità. Si sbagliano: la lingua non è un oggetto statico ma piuttosto qualcosa di fluido che cambia continuamente. Una sorta di melodia che segue il passo di chi la usa. La struttura morfosintattica dell’italiano permette di rendere visibili le donne e rappresentarle in modo paritario, rendendo conto dei cambiamenti sociali in atto. La domanda è: vogliamo farlo?

Se vogliamo rivolgerci al mondo, dobbiamo farlo nel modo corretto. Le parole sono importanti, non possiamo continuare a fingere che non sia così, non possiamo farlo noi che ogni giorno manipoliamo morfemi e concetti, ideali e lessemi. Lo sappiamo: il modo in cui ci viene rappresentato il mondo influenza il nostro modo di vedere il mondo ed è un nostro dovere farlo nel modo più corretto possibile.

Maria Ducoli