Scuola: tra DAD e presenza. Chi sta pagando il prezzo più alto?

(Immagine: Leggo per Te Valle Camonica)

La scuola ha riaperto, ma solo fino alla prima media. Dalla seconda media in poi tutti a casa in Dad, fino a lunedì 12 aprile, data che vedrà il rientro a scuola delle medie al 100% e degli studenti delle superiori al 50% o al 75%, visto che in Lombardia si torna in zona arancione.

Da mesi, il rapporto tra scuola e pandemia da Covid19 nel nostro paese è foriero di interessanti interrogativi e riflessioni. La situazione emergenziale ha costretto molti docenti a reinventarsi, a studiare nuovi mezzi, a cercare vie alternative per svolgere la didattica a distanza, in molti casi raddoppiando tempo ed energie. Altri insegnanti invece si sono arresi, hanno tirato i remi in barca e si sono limitati a proporre lezioni frontali nel disinteresse generale, facendo finta di non accorgersi che nelle verifiche gli studenti copiano e nelle interrogazioni leggono. D’altronde non ci possono fare quasi niente.

Allo stesso tempo, considerando l’elevata età media del corpo docente, trovo comprensibile la diffusa preoccupazione rispetto al rientro in presenza dei ragazzi: in questi ultimi giorni, il personale scolastico ha ricevuto quasi totalmente almeno la prima dose di vaccino (AstraZeneca), tuttavia la seconda dose arriverà per molti a scuola finita e in luogo imprecisato, sempre che di Regione Lombardia qualcuno riesca ancora a fidarsi. Stesso problema per gli anziani, i nonni degli studenti, i genitori dei docenti, che per questioni anagrafiche hanno maggiori possibilità di lasciarci la pelle. Insomma, l’allarme contagi che gravita intorno al rientro a scuola dei ragazzi non sembra cessare.

Forse il problema risiede come al solito nelle narrazioni. Come ho sentito dire, il Covid19 sembra un intellettuale radical chic: va a teatro, va ai concerti, va al cinema, va in libreria, tenendosi ben lontano dai negozi di articoli sportivi o di telefonia, dai supermercati; è un virus che va a scuola e non va in chiesa. Ok, è facile fare ironia e retorica spicciola, ma qui sembra sempre di stare al giorno zero. E fin dal giorno zero del Covid sentiamo ripetere come un mantra che se riapriamo le scuole aumenteranno i contagi. Solo che è trascorso più di un anno, abbiamo i vaccini, avevamo il tempo di organizzarci, di investire, di stabilire le priorità per la ripartenza. E la scuola, è risaputo, non è mai stata una priorità del nostro paese. Anzi, in quest’ultimo anno è stata usata come capro espiatorio per spiegare l’avvento di nuovi focolai di contagio e, di conseguenza, elevata al ruolo di vittima sacrificale: qualcosa bisognava pur bloccare. In coerenza con la solita furberia e la storica assenza di lungimiranza della nostra politica, imporre la Dad così a lungo è stata la scelta più facile e scellerata che si potesse fare, passata nell’opinione pubblica come una soluzione inevitabile e tutto sommato indolore, visto che le lezioni, anche se a distanza, erano e sono garantite.

Di recente ho letto numerosi articoli che parlano di un aumento esponenziale dei disturbi psichici degli studenti avvenuto dopo il marzo 2020, complici Dad e lockdown. Aumentano i ragazzi che soffrono di stress, di disturbi alimentari, di autolesionismo, di crisi d’ansia, di agitazione, aumenta il senso di spaesamento e di incertezza per il futuro. È come se i ragazzi si sentissero schiacciati, chiusi un una bolla, parcheggiati nei loro quadratini virtuali in attesa di chissà che cosa. Come denunciato dal neuropsichiatra R. Borgatti in un intervista su l’Espresso, «La didattica a distanza è stato un modo di noi adulti per pulirci la coscienza. Una scelta classista e antidemocratica».

La domanda, un po’ retorica ma non troppo, che a questo punto occorre porsi è: chi sta pagando il prezzo più alto della pandemia?

Per una volta vorrei che a sollecitare le riflessioni dei lettori fossero gli studenti stessi, anche se indirettamente. Trascrivo a memoria un dialogo avuto alla fine di una lezione in Dad con una classe seconda superiore della provincia bresciana, poco prima delle vacanze di Pasqua. (I nomi utilizzati nel dialogo sono di fantasia, il prof sono io)
Prof: Ragazzi, sicuri che va tutto bene? Più passa il tempo più vi percepisco spenti, passivi.
Martina: No, prof. Io non sono sicura. Non ce la faccio più. Siamo in prigione! 
Prof: In che senso Martina? Spiegami…
Martina: Eh prof, che cosa le devo spiegare! Siamo tutti rinchiusi a casa da circa un anno. Non possiamo venire a scuola, non possiamo fare sport, non possiamo incontrarci… non possiamo fare niente!
Prof: Vi credo, nei vostri panni non so come starei. Perché non mi raccontate cosa fate durante la vostra giornata? 
Ilaria: Sto tutto il giorno nella stessa stanza: sei ore davanti al pc per le lezioni, a volte non mi sposto nemmeno per mangiare, poi rimango in camera a fare i compiti e studiare perché voi prof ci riempite di consegne, interrogazioni e verifiche. Poi la giornata è finita.
Prof: Sì, ok, ma non sentite le amiche e gli amici? Davvero non uscite di casa perché dovete fare i compiti?
Daniel: io gioco sempre con la Play nel pomeriggio, sfido i miei amici online! Poi ascolto musica su Spotify o guardo qualcosa su Netflix, esco solo ogni tanto con il cane.
Francesca: Messaggiamo tra di noi continuamente, stiamo su Instagram, Tiktok, Whatsapp ma non è come incontrarsi davvero. Secondo lei dovremmo uscire di casa per far cosa? È tutto chiuso.
Prof: Credo che dovreste trovare tutti il tempo per uscire almeno a farvi un passeggiata, un giro in bici, anche solo per prendere un po’ di sole. Riuscireste a imporvi di dedicare almeno un paio d’ore della vostra giornata per uscire dalla “prigione”? Basterebbe organizzarsi un po’, vi posso dare dei suggerimenti…
Martina: Ma prof!!! Per andare dove? Con chi?
Nicolò: Io esco e incontro qualche amico, ma dobbiamo sempre nasconderci, la gente ci guarda come se fossimo dei delinquenti. 
Prof: Capisco, ragazzi. Ma non dovete mollare, lo vedo che siete stanchi, io stesso non riuscirei a restare tante ore al pc, tante ore chiuso in casa, senza vedere gli amici, che alla vostra età è di vitale importanza. Forse non riesco nemmeno ad immaginare come vi sentiate realmente, solo mi chiedo se non sentite il bisogno di reagire, perché non protestate? Perché non vi fate sentire?
Andrea: Perché non ci ascolta nessuno.
Driiiiiiiiiiiin.
Siamo tutti responsabili. 

Marco Bigatti