Denunciare gli stereotipi di genere con la fotografia

Fin dal momento in cui vieni portata a casa dall’ospedale, in fasce, ad accoglierti trovi una cameretta rigorosamente rosa, probabilmente con fiorellini e farfalline sulle pareti. Qualche anno dopo, bambole, servizi da tè, frutta e verdura di plastica e Barbie impeccabili si accalcano nelle ceste dei giocattoli. Avete mai visto una bambina - anche piccola, di quattro o cinque anni - che gioca? Con un bambolotto in braccio, sventola la mano per salutare il “marito” che va al lavoro mentre lei, una piccola donnina figlia del patriarcato, prepara la cena per quando rientrerà.  

Non gliel’ha mai spiegato nessuno, ha semplicemente assorbito quello che trovato nell’ambiente: rigide distinzioni fatte di grembiuli rosa e grembiulini blu, principesse da salvare ed eroi coraggiosi.

Quando cresci, non sono più i giocattoli che ricevi a Natale a ricordarti quale sia il tuo posto, ma la società. Le domande di rito, perché se a 37 anni non hai ancora sfornato una piccola tribù, tutti si prendono il diritto di chiederti cosa tu stia aspettando. Se non stiri non stai facendo il tuo dovere, perché - e sia chiaro - le faccende di casa sono il tuo dovere per eccellenza (e di chi, sennò?). Non che gli uomini siano immuni dai cliché che ci trasciniamo dietro dai secoli dei secoli. Le materie umanistiche sono roba da femmine, meglio se fai lo scientifico. Lo sport per eccellenza è il calcio, se ti piace la danza classica in casa cominciano a comparire i libri di Freud per capire cosa sia andato storto nel passaggio da una fase dello sviluppo psicosessuale all’altra. Se ti occupi dei figli (sicuramente non grazie al congedo di paternità striminzito di cui disponiamo in Italia) ti danno l’etichetta del mammo, quando esiste già una parola per il ruolo che stai ricoprendo: si dice papà.


Superare gli stereotipi con gli stereotipi stessi, è possibile? Sì. Ne hanno dato prova Michela Taeggi ed Elisa Mauri - rispettivamente fotografa e psicologa - con il loro progetto di fotografia partecipativa ad azione sociale “Autoritratto e Stereotipi di Genere”, in collaborazione con Spazio Cam. La fotografia, si sa, è una delle forme di comunicazione più efficaci: un’immagine ti si imprime negli occhi - volente o nolente che tu possa essere - e anche se hai sempre la possibilità di distogliere lo sguardo, al tuo cervello bastano pochissimi secondi per captare i messaggi che stanno dietro allo scatto. Puoi essere la persona più disinteressata del mondo, ma una reazione - anche involontaria - l’hai di sicuro.

Imprimere a colori gli stereotipi con i quali conviviamo da sempre, è un modo per superarli. Perché se carta canta, fotografia denuncia. Non possiamo continuare a fingere che questi cliché dal retrogusto patriarcale non esistano, se sono appesi alla parete. E non possiamo nemmeno continuare a credere che siano una questione esclusivamente femminile.


I cinque incontri che compongono il laboratorio (il prossimo partirà il 15 aprile, puoi trovare più informazioni qui http://immaginiinmovimento.info/eventi/autoritratto-e-stereotipi-di-genere/) prevedono un momento più creativo, gestito da Michela, e uno più riflessivo in cui Elisa aiuta i partecipanti ad entrare in un certo clima emotivo, necessario per trovare il proprio messaggio da condividere con la fotografia. Hanno preso spunto dai lavori di Cindy Sherman, artista, fotografa e regista statunitense che utilizza il proprio corpo per parodiare gli stereotipi femminili imposti dalla società.


Non siamo immuni dai cliché più longevi, basta ascoltare le frasi che normalmente diciamo per rendercene conto. Mamma mia come sei acida. Ma sei mestruata? Ma non piangere come una femminuccia! Gli uomini non piangono! Quella sì che è una donna con le palle. Sono femminista, però voglio che sia l’uomo a fare il primo passo e che mi apra la portiera.

Non sai cambiare una gomma? E tu saresti un uomo?

Potremmo continuare all’infinito. Si dovrebbe parlare di persone, non di entità con una specifica etichetta spillata in fronte. Ricordiamocelo, la prossima volta che avremo l’istinto di dire “piangi proprio come una femmina”.