Tenet: il tempo è relativo

Allo spettatore abituato alla consequenzialità causa/effetto che addomestica buona parte dei prodotti esposti sulle piattaforme on demand, Tenet deve aver fatto venire una bella emicrania a grappolo. Il nuovo film di Christopher Nolan, infatti, prosegue la personalissima recherce du temps perdu nella quale il regista anglosassone immerge il prisma ottico della sua cinepresa nello specchio lacustre del tempo, invertendone i nessi, mentendo sulla fabula per riaffermare la centralità della narrazione.

La trama è presto detta, e attinge tanto da 007 quanto al cinema in stile Michael Bay; un agente americano (il nome non verrà mai svelato) viene arruolato per affrontare una guerriglia sconosciuta che si muove nel tempo – si scoprirà che proviene direttamente dal futuro – per impedire la distruzione del mondo. Se allo spettatore la proposta non suonerà allettante, è pur sempre vero che il protagonista, interpretato da un John David Washington abile a svuotare di ogni emozione il suo personaggio, si cala in una fitta rete di spiegoni di fisica quantistica, pallottole che rientrano nella canna della pistola, inseguimenti con automobili che procedono al contrario (ma l’automobilista milanese ha visto di peggio in certi prefestivi), in un crescendo che sovverte la temporalità del racconto in favore di una distopia dai risvolti indefiniti.

Non che Nolan non avesse già provato a dirci che quella del tempo è la sua ossessione da una vita; dal rimontaggio mentale di Memento (2000), al tempo della storia come continua revisione in The Prestige (2006), fino a quello che ad oggi pare essere il suo capolavoro, Inception (2010) nel quale tempo/realtà e tempo/sogno arrivano a collimare fino a sovrapporsi in uno dei momenti più alti della narrazione hollywoodiana contemporanea.

In 150 minuti, Tenet prova dunque a suggerirci che la linearità non è una caratteristica privilegiata del reale, nel quale irrompono piuttosto elementi del futuro che si sommano a quelli del passato, desiderosi di riscrivere il presente per cambiare il domani.

Il mal di testa è assicurato, ma Nolan non appare tanto preoccupato di dare credibilità a ogni cosa che vediamo sul grande schermo, consapevole che il cinema non è un’equazione da Nobel ma piuttosto un’incredibile, affascinante, stanza degli specchi nella quale si indica se stessi per intendere immagini altre, il luogo d’elezione nel quale due più due non fa quattro, ad una causa non corrisponde un effetto diretto, e fatalmente ci si trova a combattere contro uno sconosciuto nell’impossibilità di ammettere che si prende sempre a pugni se stessi. 

Stefano Malosso