Sara Centelleghe, uccisa dal male innominabile del patriarcato


 «Una tragedia», «una cosa brutta», «una storia terribile». Così i compagni e le compagne di Sara Centelleghe, la 18enne di Costa Volpino uccisa dal vicino con undici forbiciate, commentano quanto successo. Cercano le parole che non hanno, fuori dall’istituto Ivan Piana di Lovere. In spalla i loro zainetti colorati, fissano la telecamera smarriti e si lasciano andare a lunghe pause. Si dicono sorpresi di vedere che fatti del genere succedano anche qui, a due passi dalla loro casa. Il punto è che la morte di Sara non è solo una storia brutta, un cataclisma successo all’improvviso, una tragedia che nessuno immaginava: la morte di Sara è la conseguenza della società patriarcale in cui viviamo, in cui gli uomini esercitano ancora il potere di togliere la vita alle donne, in quanto tali. A far preoccupare è anche la scarsa consapevolezza dei ragazzi e delle ragazze, che sembrano non accorgersi di come il lutto per l’uccisione di Sara non sia privato, ma pubblico e politico, perché dietro al crimine, alla violenza, c’è una matrice culturale. C’è la cultura patriarcale, che dalla notte dei tempi  attribuisce un ruolo minoritario alla donna che, a sua volta, introietta inconsapevolmente una serie di comportamenti per aderire o avvicinarsi a quel modello.

Ma la parola «patriarcato» sembra essere indicibile, una parolaccia, un termine con cui si fanno i risciacqui alla bocca la mattina le femministe. Meglio non pronunciarla, tenersi lontano, perché poi si può essere accusati di fare politica a scuola, sia mai. Meglio ridurre sempre tutto a una visione semplicistica, puntare il dito contro l’uomo e sentenziare che è stato un mostro e l’intera vicenda una tragedia. Così, però, si perde di vista il quadro complessivo, la trama in cui ogni femminicidio si colloca. Sicuramente è più difficile, richiede più sforzo, perché  vedere il paradigma in cui siamo immersi ci impone di riflettere anche su di noi, sul contesto in cui siamo, su ciò che proviamo e pensiamo.

Quale sia il movente dell’omicidio, la sostanza non cambia: si tratta sempre di un uomo - non un mostro - che ha scelto sulla vita di una ragazza.  E i minuti di silenzio, nelle scuole, non servono a niente. Si dovrebbe finirla di chiedere a questi giovani e giovanissimi di alzarsi con lo sguardo fisso sul banco per quel minuto sancito dalla campanella, interminabile per molti e troppo breve per altri.  Quel silenzio andrebbe rotto, squarciato, riempito di parole, di rabbia, di consapevolezza. In Valle e sul Sebino mancano i collettivi studenteschi, i gruppi che si prendono le piazze, le scuole, per gridare che le cose devono cambiare, per riaffermare i diritti delle donne, per chiedere quello che nel resto d’Italia stanno chiedendo a gran voce, l’educazione sessuale e al consenso tra i banchi. E se tutto ciò manca, forse è anche perché si tende a pensare che «da noi queste cose non accadono», succedono sempre altrove, no? Eppure, la nostra non è una valle incantata, il mondo non è altrove, violenze e sottomissioni accadono anche qui. Semplicemente, non se ne parla.  E allora sarebbe da dire basta con i minuti di silenzio, basta con le fiaccolate sommesse, basta pure con le scarpette rosse e le giornate di stato contro la violenza di genere, per poi tornare a fare tutto come prima. Ribellarsi è giusto, bruciare tutto, almeno  metaforicamente, è sacrosanto.  

Maria Ducoli