Mentre tutta l'opinione pubblica discute del femminicidio di Giulia Cecchettin (ilpost.it), pubblichiamo l'articolo di Maria Ducoli, uscito sul numero 320 di Graffiti.
Come scriveva allora Maria, "Quello romano è l’ennesimo esempio di un sistema che legittima la violenza di genere, le dà man forte non punendola con provvedimenti esemplari, non introducendo l’educazione sessuale nelle scuole, non parlando di consenso e diritti delle donne. Si continua a fare ciò che si è sempre fatto, mentre le pagine dei giornali si affollano di femminicidi, stupri, schiaffi.
«La società accetta e tollera la violenza» continua [Valentina] Rinaldi, «e alcuni episodi, come questo, sono lo specchio della società»"
Quanti sono dieci secondi? Quanto possono essere lunghi, infiniti, nel momento in cui si è vittime di una violenza, di un palpeggiamento? Se è vero quello che diceva Einstein, ovvero che il tempo è relativo, è vero anche che non dovrebbe esserlo in un tribunale dove sul tavolo c’è un’accusa di violenza sessuale.
È successo a Roma, ma poco importa il luogo, avrebbe potuto capitare da qualsiasi altra parte.
Ciò che conta, è che è successo.
Antonio Avola, bidello 66enne dell’istituto Cine Tv Roberto Rossellini, è stato assolto dall’accusa di molestie ad una studentessa 17enne a cui avrebbe toccato i glutei «per una manciata di secondi, tra i 5 e i 10, senza indugio nel toccamento».
La sentenza ha subito scatenato la bufera sui social ed è presto nato il trend #10secondi: “questa è una palpata breve?”, dapprima lanciata dall’attore Paolo Camilli e poi dal content creator Francesco Cicconetti, seguiti dal popolo di Instagram e TikTok.
Vale la pena chiedersi se il diritto di non essere violate debba essere cronometrato e rientrare in un tempo ben preciso.
Dieci secondi, che saranno mai.
Intanto, una minorenne per dieci secondi è stata abusata.
Perché di abuso si parla, non è che a uno scappi la mano sui jeans degli altri.
Un uomo, per dieci secondi si è preso il diritto di invadere lo spazio personale di una ragazza, palpeggiandola.
Non ci dovrebbero essere dubbi su quella che dovrebbe essere la sentenza, non ci dovrebbero essere zone grigie quando si parla di violenza di genere, dovrebbe essere tutto bianco o tutto nero.
O mi hai palpeggiato, e devi essere punito, o non l’hai fatto, a prescindere che sia successo per 7 secondi o per 20 minuti.
Eppure, Avola è stato assolto.
E con la sua assoluzione, si è fatta strada una domanda: vale la pena denunciare, se poi le conseguenze sono queste? Quanto può essere ancora più difficile per una giovane alzare la testa se l’esempio offerto è quello di un’assoluzione, «perché erano solo 10 secondi»? A rispondere è Valentina Rinaldi, del Centro antiviolenza di Darfo: «Sicuramente non è stimolante l’idea di denunciare sapendo che si può incorrere in queste sentenze».
Quello romano è l’ennesimo esempio di un sistema che legittima la violenza di genere, le dà man forte non punendola con provvedimenti esemplari, non introducendo l’educazione sessuale nelle scuole, non parlando di consenso e diritti delle donne.
Si continua a fare ciò che si è sempre fatto, mentre le pagine dei giornali si affollano di femminicidi, stupri, schiaffi.
«La società accetta e tollera la violenza» continua Rinaldi, «e alcuni episodi, come questo, sono lo specchio della società.
Penso anche al caso della festa degli alpini dello scorso anno, anche in quel frangente le denunce delle donne erano viste come un’esagerazione».
Il voltafaccia istituzionale fa ancora più male, forse, dell’abuso: si tratta dell’ennesima vittimizzazione secondaria ai danni di chi non solo è già stata vittima una volta, ma lo ridiventa nel momento in cui per il Tribunale il fatto non è stato poi così grave e amici come prima.
Allora viene da chiedersi se sia sempre questa la condizione che spetti alle donne, quella di vittime.
La risposta è solo una: no.
Anche questa equazione “donna=vittima” non è altro che un riflesso della cultura patriarcale e sessista.
Certo, capita spesso che siamo vittime.
Di violenza, di abusi, maschilismo, del sistema nel suo complesso.
Ma siamo molto di più.
Tuttavia, nonostante ci vogliano sempre far passare in questo modo, quando è il momento necessario per farlo, la legge non viene in nostro aiuto.
«C’è un vuoto legislativo rispetto alla violenza sessuale» continua, «nel Codice Penale manca la parola consenso».
Infatti, l'articolo 609 bis considera colpevole del reato di violenza sessuale “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali", ed "è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.
«Ma se consideriamo violenza solo ciò che avviene con una minaccia o con la forza, allora tralasciamo tantissime situazioni, come quella del caso romano».
Forse, però, qualcosa potrebbe cambiare perché pare esserci nell’aria una proposta dell’Unione Europa di introdurre il concetto del consenso nelle leggi nazionali.
Intanto, Rinaldi fa sapere che nel primo semestre del 2023, il Centro ha visto un’impennata di nuovi casi, «ben il 20% in più rispetto alle donne che si sono rivolte a noi per la prima volta nello stesso periodo del 2022».
Allora erano 40, quest’anno sono già a quota 51.
«Credo sia dovuto ad una maggior conoscenza della nostra realtà e ad una maggior consapevolezza delle donne. Tendo ad escludere che la motivazione di questo aumento sia legato ad una maggior violenza, perché i dati nazionali sono sì deprimenti (1 donna su 3 è vittima di violenza domestica, ndr), ma stabili»