Questo articolo è stato pubblicato sul numero 319 Graffiti.
«Tutti in lacrime per l'orso che rischia di essere abbattuto. Ma si dimenticano che è l'uomo che deve dominare sulla natura», scrive Il Giornale (14-04-2023) in relazione alla vicenda dell’uomo ucciso da un orso in Trentino.
E gli avvistamenti dell’orso proseguono in Valle Camonica: veri o presunti tali, perché per cavalcare la paura (non si sa bene a che fine) c’è chi diffonde filmati provenienti da territori anche molto lontani spacciandoli per testimonianze tratte dalle nostre montagne.
L'Orso Alpino, 1819. Illustrazione dal catalogo digitale della Bibliothèque nationale de France (https://gallica.bnf.fr/) |
Nemici e invasori stavolta non vengono dall’Africa, ma dalla Valle del Brenta, dove l’orso è stato soggetto ad un riuscito progetto di conservazione nella seconda metà degli anni ‘90: si chiamava «Life Ursus»: partì il 1-04-1996 e si chiuse il 30-09-2000, con un contributo dell’UE di € 319.799,00.
Poiché all’epoca la popolazione locale di plantigradi ammontava a tre soli esemplari, «vecchi e
non più in grado di riprodursi» (Parco Naturale Adamello Brenta), si decise di reintrodurre altri 9 animali provenienti dalla vicina Slovenia. E al termine del progetto, i ricercatori festeggiarono avendo potuto vedere la nascita del primo cucciolo.
Storia di successo? Non proprio visto che ora, dopo averli reintrodotti, puntiamo a farli fuori.
Ma come ha fatto l’orso, prima di allora, a scomparire dalle Alpi?
Ancora nel ‘600 si trattava di un animale descritto come abitante comune delle nostre montagne, al contrario del cinghiale e del cervo(!): «Abbondano quì dentro tanto le Seluagginé… De quadrupedi vi regnano Lepri in quantità,Volpi ,Tassi, Caprioli, o sian Camozzi, Daini, Lupi, Orſi, Marmotte… e tall' hora pellegrini, e ſorastieri capitano Cinghiali, e Cervi», scrive Gregorio di Valcamonica nei suoi Curiosi Trattenimenti (p. 97)
Le cose cambiarono però nei secoli successivi, e Gabriele Rosa, nel 1881, nota come una cosa degna di evidenza il fatto che «dal 1869 al 1872 si uccisero [in valle] ancora tre orsi e sette orse».
Proprio l’Ottocento deve aver rappresentato un momento particolarmente cruento del rapporto tra uomo e animali. Sempre Rosa, nel passo citato, dice anche che dalle montagne camune «sino dal principio di questo secolo scomparvero «Cervi, Cignali, Marmotte, Caprioli, Stambecchi».
Secondo l’Ufficio Faunistico del Parco Adamello Brenta questo è dovuto ai «vasti disboscamenti, realizzati per aumentare la disponibilità di pascolo per il bestiame domestico, seguiti da un progressivo utilizzo capillare degli ambienti montani… In queste condizioni, i conflitti tra il plantigrado e l’uomo, da sempre presenti, si sono venuti ad acuire irrimediabilmente fino a sfociare nella persecuzione diretta, che rappresenta la principale causa della scomparsa dell’orso dall’Arco Alpino».
Insomma, la guerra l’abbiamo fatta noi all’orso, ma solo da tempi relativamente recenti è diventata sistematica: da quando cioè la nostra «bomba demografica» è esplosa, e siamo andati a colonizzare parti del territorio naturale che ancora non avevamo toccato (almeno non con quella frequenza) nel passato.
Se infatti facciamo un salto di qualche secolo indietro, vediamo che nel Medioevo l’orso non rappresenta tanto un nemico/concorrente, quanto piuttosto una preda ambita da cacciare per il prestigio.
Gli orsi sono rappresentati, come prede da cacciare, negli affreschi della Torre dell’Aquila, nella corte vescovile del Castello del Buonconsiglio di Trento.
Anche i Vescovi di Brescia erano soliti chiedere dei tributi di varia grandezza alle comunità loro suddite, durante le visite ai loro feudi camuni, testimoniate nell’archivio diocesano cittadino.
Così, nel secolo XIII, agli uomini di Edolo e Mu chiedevano di fare la guardia alla rocca di S. Giovanni, mentre da chi abitava in Alta Valle esigevano un tributo in «poine» (ricotte).
Ma per quanto riguarda gli abitanti di Incudine, «quando catturano l’orso, la curia avrà il la coscia, le gambe, le interiora e la spalla destra», mentre degli orsi catturati da quelli di Cividate l’episcopato terrà «metà dell’animale, con la schiena, la testa, la coscia e le gambe», lasciando ai Cividatensi «un piede», e un altro a quelli di Malegno, se fossero arrivati anche loro a dar manforte ai vicini.
Insomma, prima come trofeo per le tavole (e i caminetti) dei vescovi, poi per cacciarlo dalle terre che ci servivano per il pascolo o per lo sfruttamento, sono secoli che uccidiamo gli orsi.
Ora che la popolazione della montagna diminuisce, e le risorse naturali sono apprezzate più come una ricchezza in sé (per la biodiversità, per la possibilità che danno al nostro spirito e al nostro corpo di entrare in contatto con la natura, per le ricadute sul turismo...) che come un serbatoio da prosciugare, sarebbe forse il caso di trovare un nuovo rapporto con gli orsi.
Nella consapevolezza che, nonostante quello che ne pensa Il Giornale, l’uomo non «deve dominare sulla natura», quanto piuttosto cercare un difficile (per noi) equilibrio.
Ivan Faiferri