Ipocrisia di stampa. La libertà non è di classe

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Il compito dei giornalisti è arrivare fino in fondo. Scavare, scoprire, scoperchiare, illuminare. Andare avanti, quando sarebbe più facile tornare indietro. Ne abbiamo scritto giusto qualche settimana fa, raccontando della difficoltà a reperire i dati sull’obiezione di coscienza in Valle Camonica (Aborto: Esine unico ospedale dove viene praticato, ma il 50% del personale è obiettore. A Iseo lo è il 100% (associazionegraffiti.blogspot.com)), anche allora ad essere al cento non era solo il diritto d’accesso alle pratiche di interruzione volontaria di gravidanza, ma la libertà di stampa stessa. Libertà che sembra venire meno ogni volta che dobbiamo fare mille giri e cerimonie per ottenere i dati che cerchiamo, ogni volta che ci viene chiesto di poter vedere l’articolo in anteprima, ogni volta in cui chi si occupa di cronaca nera si sente dire dalle forze dell’ordine che non sono autorizzati a dare informazioni. Margini di miglioramento, ci sono. Infatti, secondo il report annuale del 2022 del Wold Press Freedom Index, di Reporters Sans Frontières, l’Italia è al 58° posto per la libertà di stampa, e, anzi, rispetto al 2021 ha perso ben 17 punti. Fare peggio, insomma, è difficile. 
Per ricordare l’importanza del tema, esiste pure una giornata internazionale. Giornata in cui gli Ordini regionali e l’Ordine nazionale, insieme alla FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) scendono in piazza per ricordare a gran voce l’importanza del lavoro dei giornalisti, chiedendo che questi non vengano imbavagliati. Dev’essere questa, la battaglia da portare avanti oggi? Si e no, perché parlare di libertà di stampa senza parlare delle condizioni contrattuali dei professionisti dell’informazione è fare un discorso a metà, oltre che fare dell’ipocrisia. 

Non si vede, nessuno ne parla, ma là fuori c’è un mondo fatto di precarietà, in cui i diritti dei collaboratori dei giornali non esistono e la paga sono briciole che non bastano per vivere. Là fuori c’è chi per decenni ha scritto articoli su articoli tutti i giorni, trasudando passione e addormentandosi sulla tastiera, e non ha mai visto la regolarizzazione del proprio contratto. Solo promesse, mai realizzate. Ci sono giovani che non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, perché le redazioni chiedono l’iscrizione all’Ordine ma, per arrivarci, servono due anni di collaborazioni pagate. Ma chi può pagarti se lo spazio è poco e i giornali online prima di farti scrivere ti mandano una mail per ricordarti che lo si fa solo per passione? Un cane che si morde la coda: senza stipendio, niente tesserino. Senza tesserino, niente lavoro e, quindi, niente stipendio. Anche le modalità stesse di iscrizione all’Ordine sono un controsenso: chiedono traccia delle retribuzioni- può bastare anche un solo bonifico - per evitare che gli aspiranti pubblicisti vengano sfruttati, ma le chiedono solo dopo. Dopo due anni di lavoro non pagato, a cui si rimedia in fretta e furia, spesso con il pagamento in una volta sola di una cifra irrisoria o - ancora peggio - con giovani che danno ai capi i soldi affinché questi facciano loro un bonifico per la famosa attestazione richiesta dall’Ordine. Uno sfruttamento legittimato dall’Ordine stesso che dovrebbe tutelare la categoria. Ma dove sono le tutele? Negli ingressi gratis a mostre e musei? L’iscrizione ad un albo professionale dovrebbe comportare qualcosa in più. Responsabilità e doveri, sì, ma dall’altra parte dovrebbero esserci anche diritti. 

Ci sono professionisti per i quali il sogno del tempo indeterminato sfuma perché assumere giovanissimi comporta delle agevolazioni fiscali, e allora vengono messi alla porta. Anche questo è il mondo del giornalismo, il sommerso che non si vede ma che c’è.
E non si vedono nemmeno gli stipendi, cinque euro ad articolo, per qualcuno. Niente rimborsi per la benzina, niente maggiorazioni per i festivi. Non esistono, per i collaboratori, la malattia, le ferie o la maternità. Non esistono diritti. Con la paga a cottimo, a vincere è la frenesia. Più scrivi più guadagni, a discapito della qualità. Una macchina di produzione che dev’essere veloce, efficiente, h24, in cui quasi non c’è il tempo di pensare. Questo è il prezzo dell’informazione. E finisce, allora, che i giornalisti che fanno inchieste sul caporalato o sullo sfruttamento dei lavoratori delle fabbriche hanno condizioni contrattuali peggiori delle situazioni che denunciano. E viene da chiedersi, allora, dove sia il sindacato, perché non sia ancora cambiato niente, se la sua unica funzione sia quella di mandare newsletter e pubblicare le notiziette di turno o se i diritti dei lavoratori che rappresenta siano ancora di suo interesse. 
Le condizioni di lavoro dei giornalisti sul campo non sono di certo una novità, le cose stanno così da tempo. Quando si accenna al problema, un’alzata di spalle e un sospiro rassegnato. «Non cambierà mai niente». Ed è vero, non cambierà finchè non si tornerà al concetto di classe, delle sue condizioni e interessi. Finché tutta la categoria non si batterà, finché anche chi è stato regolarizzato e può godere di diritti e benefit non si mobiliterà per la miriade di colleghi svantaggiati, allora tutto resterà uguale . E la libertà sarà forse di stampa, ma non di classe.