Pensavo che sarebbe durato per sempre. 15 marzo in lilla

“Ho detto a Coraline che può crescere
Prendere le sue cose e poi partire
Ma sente un mostro che la tiene in gabbia
Che le ricopre la strada di mine
Ma Coraline non vuole mangiare, no
Sì, Coraline vorrebbe sparire”

Coraline dei Måneskin non è stata scritta per parlare dei disturbi del  comportamento alimentare (DCA), eppure, lo fa. Coraline diventa tutte le persone che ne soffrono, che vorrebbero la libertà ma non riescono a raggiungerla, prigioniere della gabbia di cristallo in cui si sono rinchiuse da sole, quasi  per caso. Marta non pensava che avesse un problema, mangiava poco e dimagriva, sì, ma niente di allarmante. Poi le dita iniziarono a scavare nella gola, cercando di tirar fuori il cibo e le emozioni che non riusciva a dire. «Ero magra ma non pensavo di esserlo al punto di chiedere aiuto» 

Anche Desi  non pensava di cadere nel girone infernale dei disturbi alimentari, inizialmente voleva solo evitare la carne. Poi ha inizio una storia di dolore, per un lutto le si chiude lo stomaco e non le si riapre più. Iniziano i ricoveri, l’incubo non sembra finire.

Irene una diagnosi non l’ha, non è mai stata ricoverata e non è mai stata così magra da dare nell’occhio, eppure ha un disturbo alimentare lo stesso. «Si pensa sempre che per avere questo problema devi pesare 40 kg e non mangiare niente. Non è una questione di peso, un DCA è molto di più, è uno schema rigido che diventa la tua normalità. Lo sapete quanto fa mancare il fiato?». Irene mi racconta che si è decisa a chiedere aiuto un giorno di primavera, dopo i tre lockdown che l’avevano devastata. «Non era difficile solo perché non c’era la possibilità di uscire a camminare, una cosa che ho sempre fatto per stare tranquilla e placare i sensi di colpa che ho quando mangio, ma anche perché non c'erano grandi distrazioni. Eri costretta a stare tutto il giorno in una stanza con il tuo disturbo alimentare che ti guardava». Irene ha chiesto aiuto da sola, ha iniziato la psicoterapia da remoto, a pagamento, non voleva dirlo alla sua famiglia e, sottolinea, «non sarei stata abbastanza magra per poter essere presa in carico dall’ATS, non c’erano alternative».

La pandemia è stata una tempesta anche per Desi: «con il lockdown sono caduta in depressione, il mio peso era calato così tanto da farmi ricoverare in psichiatria. L’anno dopo sono stata ricoverata in una struttura specializzata in disturbi alimentari a Vicenza». 

Giorgio Pellegrini è uno psicologo specializzato in disturbi alimentari, un lavoro non semplice. «La parte più difficile è aiutare i pazienti a trovare la motivazione al cambiamento. Nel gergo diciamo saltare il fosso, ovvero vedere gli ostacoli, i contro del disturbo alimentare, e non solo quei pochi pro». Le difficoltà emergono anche nel momento dell’accettazione del problema, provateci voi ad accettare di avere una malattia, ad ammettere che qualcosa vi sia sfuggito di mano, che mentre pensavate di avere il controllo era lui ad avere voi. Non è facile per nessuno.

«Il DCA inizialmente è un aiuto, un modo per sfogare qualcos’altro che non va. Quando ti viene data la possibilità di comportarti in modo diverso, di abbandonare quegli schemi che ti avevano dato sicurezza, diventa impegnativo» commenta Marta. Nonostante fosse difficile, lei non ha mollato ed è andata contro se stessa quando serviva. Oggi Marta ce l’ha fatta, è guarita quando pensava che fosse impossibile uscirne davvero. «Si sta male, ma si può stare anche molto bene». Sottolinea come sia necessario superare le idee comuni, la banalizzazione dei disturbi alimentari. «Tutti hanno il diritto di chiedere aiuto, qualsiasi sia il loro peso».

C’è bisogno, però, di professionisti specializzati e di strutture apposite che in Valle sono ad oggi molto carenti, come denuncia la nutrizionista Laura Cotti Cometti. Nell’ultimo anno ha iniziato ad approfondire il tema per poter aiutare persone che si trovano a convivere ogni giorno con un disturbo alimentare. Il suo è un approccio diverso rispetto alle classiche prescrizioni basate sul numero di calorie giornaliere: «Nel primo anno di lavoro ho iniziato a incontrare persone che si erano sottoposte a numerose diete e a vederne gli effetti collaterali. Mi sono detta che non avrei incrementato quella sofferenza, che non volevo far parte del mercato della dieta».

Irene non è seguita da una nutrizionista, «so cosa dovrei mangiare, il problema è che non ci riesco. Anche se adesso va molto meglio, prima sulla pasta piangevo. Pensavo sarebbe durato per sempre». Tutte pensano che non ce l’avrebbero fatta, che avrebbero continuato a vivere nell’incubo. Qualcuna di loro lo crede tutt’oggi, nei giorni no, nei momenti in cui vecchie abitudini e schemi rodati le travolgono. Ma fiorire si può e si deve, anche in mezzo al deserto. Anche con un disturbo alimentare.

E si devono anche superare i preconcetti, la credenza che i disturbi alimentari siano dei capricci, l’idea che la sofferenza di una persona e la gravità della malattia dipendano dal suo peso. Di cambiamenti e riflessioni ce ne parla anche la Dott.ssa Laura Cotti Cometti: «Oggi l’obiettivo dovrebbe essere quello di mettere la persona al centro del percorso di cura. Dovremmo smettere di credere che siano le persone a non funzionare, ma piuttosto interrogarci sul metodo utilizzato. È corretto dare a tutti una dieta senza pensare a che effetto potrebbe avere sulla persona? Oltre agli effetti fisici sono da considerare anche quelli psicologici, fare una dieta rientra tra i fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare, allora perché le sottoponiamo a chiunque?».

Maria Ducoli