Che lingua parlano i disturbi alimentari? Di linguistica clinica, diagnosi precoci e sistemi che non funzionano


 


C’è un’epidemia in corso per la quale non c’è vaccino. Ammalarsi è facile, non te ne accorgi finché non metti il piede nel punto sbagliato e scivoli. Una volta a terra alzi gli occhi, è tutto nero intorno a te: come hai fatto a finire dentro questo buco, senza rendertene conto?

Tra il 2019 e il 2020 le persone che si trovano ogni giorno ad avere a che fare con un disturbo alimentare sono aumentate del 30%, una percentuale che dovrebbe far spaventare.

Se la malattia è in aumento, non si può dire lo stesso per le cure. Ed è proprio per questo che oggi migliaia di persone sono scese a manifestare davanti al Ministero della Salute. Sì perché se hai mal di denti puoi andare dal dentista, se ti fa male un piede dall’ortopedico e se hai problemi di stomaco puoi prenotare un esame per approfondire. Ma se hai un DCA le alternative sono due: o il tuo reddito ti consente di avviare un percorso di psicoterapia senza vendere un rene per pagare le sedute, oppure devi essere abbastanza grave per poter godere dei servizi del Sistema Sanitario Nazionale.

Sono anni che si cerca in tutti i modi di abbattere lo stereotipo secondo cui le persone con un disturbo alimentare siano magrissime e desiderose di fare le modelle. Un mucchio di ragazzine viziate che non vuole mangiare i carboidrati. Il sistema non aiuta, riconoscendo il disturbo solo nel momento in cui la situazione è al limite.

Contrariamente a quanto si pensa, non è vanità o odio per il cibo, ma qualcosa di molto più complesso. Non è lo stesso che voler essere magri o cercare attenzioni, si tratta di intorpidire la mente e acquisire un senso di controllo. Non è solo cibo e alimentazione, non lo è mai.

Giorno dopo giorno il modo di ragionare e vivere cambia, tutto si riduce a degli schemi preimpostati, delle tabelle da seguire rigidamente al punto da diventare la quotidianità. Perché di questo stiamo parlando, della sottile linea d’argento che separa la normalità dalla gabbia di cristallo in cui ci si è rinchiusi con le proprie mani.


La linguista Gloria Gagliardi ha condotto una ricerca di linguistica clinica in cui ha mostrato come le caratteristiche psicologiche di persone malate di anoressia si traducano in produzioni linguistiche precise. Tra queste spicca l’uso di metafore legate alla pesantezza e leggerezza che vengono associate rispettivamente a sentimenti negativi nel primo caso e positivi nel secondo. Diventa molto interessante analizzare anche la sintassi delle persone con anoressia: presentano un utilizzo massiccio dei pronomi personali, in particolar modo del pronome io. Beh, e allora? direte voi. Dobbiamo ricordarci che in italiano il soggetto non è obbligatorio (in gergo linguistico questa proprietà si chiama pro-drop o soggetto nullo), quindi la ricerca della Gagliardi evidenzia un fatto non troppo comune. Io, io, io. Un disturbo alimentare porta la persona ad essere estremamente concentrata su di sé, e la sintassi lo prova. Altra caratteristica importante è la preferenza del presente. Tramite la quantificazione dei tempi verbali si è confermato il tratto psicologico della focalizzazione dei pazienti sul qui e ora e della loro incapacità di proiettarsi nel passato o nel futuro. Il tempo viene scandito dai pasti, il momento in cui le lancette si fermano così come la mente. Anche il cuore sussulta.

Lo scopo della Gagliardi è la creazione di uno strumento che possa essere utilizzato sia in contesti clinici che scolastici, per rilevare in anticipo il disturbo alimentare. Non sono solo gli occhi ad essere lo specchio dell’anima: lo è anche il linguaggio. E la linguistica clinica lo mostra, dando un importante contributo al fine della diagnosi precoce. Prima viene trattato e più facile sarà guarire, servono le cure, però. Serve un sistema che funzioni.

Maria Ducoli