Alice: la centrocampista camuna che vuole andare in Nazionale

 
"Ma da quando le femmine giocano a calcio?". Forse anche a te sarà capitato di sentire questa domanda. Graffiti ha deciso di approfondire l'argomento con una serie di interviste a giocatrici, arbitri, allenatori/allenatrici, dirigenti che si occupano di calcio femminile in Valle Camonica. È un mondo complesso, che lotta contro il pregiudizio. Ma sono anche storie di sport e di donne che affermano in questo modo la loro passione, la loro determinazione, la loro indipendenza. Sì, le femmine giocano a calcio, e spesso anche meglio dei colleghi maschi.
 
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Alice è una ragazza che gioca nelle giovanili di una squadra di livello nazionale. 
È giovane: tra pochi giorni inizierà l’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado. 
La incontro nell’appartamento dove vive con la sua famiglia, all’ultimo piano di una casetta nel centro storico di Villa Dalegno. È un bel pomeriggio estivo, e ci perdiamo in una chiaccherata che ci porta a parlare della sua esperienza come centrocampista, della sua passione per il dribbling, ma anche delle sue difficoltà a farsi accettare all’interno di un mondo come quello del calcio, ancora troppo vincolato a vecchi pregiudizi, come se si trattase di uno sport "per uomini".

La trascrizione della intervista ha subito qualche modifica per chiarezza e lunghezza. Per ragioni legate ai diritti di sfruttamento dell’immagine, abbiamo preferito omettere il nome della squadra per cui gioca Alice. Per ragioni di riservatezza, non pubblichiamo immagini della nostra giovane calciatrice.
 
 
Come è nata la tua passione per il calcio?
Ero ancora molto piccola, avrò avuto quattro o cinque anni: Memo, il marito della signora che mi teneva quando i miei genitori lavoravano, era un appassionato di calcio, e mi ...insegnava a giocare: mi faceva tirare la palla e lui fingeva di non riuscire a prenderla, poi urlava "Goal!" e faceva il tifo per me. Lui era uno juventino sfegatato. Ricordo che quando ero all’asilo mi portava a prendere le figurine dei calciatori.
Poi, un po’ più grande, andavo a giocare al campetto di Villa (Dalegno), coi miei amici del paese. L’estate, quando arrivavano i ragazzi dalla città, non mi volevano mai in squadra. Dicevano: "La femmina non prenderla", "Ah, ma giochi a calcio". Poi qualcuno di Villa li rassicurava: "Guarda che è forte"… e dopo un po’ ero diventata una giocatrice come gli altri.

In che ruolo giochi?
Centrocampo, fascia destra

Quale è stata la tua prima squadra?
A un certo punto, mia sorella Paola è andata a vedere i suoi amici che giocavano nel Vezza (d’Oglio, ndr). Mio papà aveva già visto che il calcio mi piaceva; alla fine della partita è andato a parlare con uno dei dirigenti della squadra. Ho iniziato l’anno successivo: avevo un sacco di paura, di essere rifiutata in quanto femmina, di non essere all’altezza.
Il fatto che ci fosse un’altra ragazza, Ottavia, mi ha dato coraggio e mi ha fatto decidere di continuare. Abbiamo passato due anni solamente ad allenarci, ma il terzo abbiamo giocato le prime partite, in una squadra mista di ragazzi e ragazze. È stato bellissimo, e i miei compagni maschi sono stati bravi, non mi hanno giudicato diversamente perché sono una femmina. Il mio allenatore invece, all’inizio diceva che "era un po’ contrario alle femmine". Dopo però si è ricreduto.

E come hai incontrato il calcio di livello professionistico?
D’estate facevo dei camp con la Juventus. Si usciva dalla regione, si stava via a dormire, ci si allenava e si faceva qualche partita amichevole. 
Ho fatto anche il camp del Milan, io avevo 11 anni, lì mi sentivo molto a disagio, perché i maschi erano tutti un po’ prevenuti, ti escludevano perché eri femmina.
Al Sestryerre erano venute due giocatrici della Juventus femminile, Cristiana Girelli e Ola Sikora, ed io ero stata nominata miglior giocatrice della mia fascia d’età.
L’anno successivo, a Chianciano Terme, al termine del camp abbiamo fatto un torneo tra di noi. Io mi ero molto divertita, ma l’allenatore della squadra under 17 della Juve mi aveva notata. Collaborava con le giovanili di un’altra formazione professionistica e mi chiese quanto fossi lontana dal loro centro sportivo: voleva capire se potevo essere interessata. Quando i miei genitori lo hanno saputo, sono corsi a parlare con lui ed è finita che ci ha passato il contatto del capo settore femminile della squadra. Mi ricordo che gli abbiamo telefonato io e mio padre, una volta che ero appena tornata dal campetto. Alla fine il papà mi ha detto: "Alice, vai in prova… se ti piace, vai". Eravamo felicissimi.

Come sono state le prime esperienze con una squadra di livello nazionale?
Il primo allenamento non mi è piaciuto. Non avevo la divisa, mi sentivo diversa, a disagio. Al ritorno ero tutta triste. Però poi ho proseguito, e dopo la prima partita è iniziato a piacermi. Ho fatto anche amicizia con le mie compagne di squadra.
Nel campionato giocavamo contro i maschi del 2009 e anche loro dicevano "non possiamo perdere con le femmine"… ma poi perdevano lo stesso. Quando giocavamo contro le femmine era diverso. Più bello per certi versi. 

Cosa ti piacerebbe, per il tuo futuro come calciatrice?
Mi piace giocare nella squadra dove sto ora, ma mi piacerebbe anche vedere com’è l’ambiente in Nazionale. In generale, vorrei crescere come calciatrice. 

E più in generale?
Mi piacciono le lingue, meno le materie scientifiche. Mi piacerebbe anche viaggiare, magari vedere l’America. Nel caso "andasse male" col calcio e non volessi più continuare mi piacerebbe lavorare con l’estero. 

Cos’è che rende bello il calcio, secondo te?
Ho fatto anche sport individuali, ma il calcio mi piace perché è uno sport di squadra. Quando fai goal esulti solo tu che metti la palla in porta, ma in realtà dietro c’è il lavoro di tutti. 
Negli sport individuali poi ti senti anche tutto il peso addosso. Prima delle gare di corsa, provavo ansia e paura, ma sul campo da calcio non ce l’ho. Siamo una squadra. 
Personalmente, poi, mi piacciono molto gli aspetti tecnici: il dribbling, il tunnel, i giochi di destrezza. 
 
Che impegno richiede, fare la calciatrice mentre frequenti la scuola secondaria?
Quest’anno facevamo due allenamenti e una partita a settimana, ma dall’anno prossimo saranno tre allenamenti, il sabato c’è la partita di campionato e magari domenica un’amichevole.
Uno degli allenamenti è con le ragazze dell’under 15: è una bella occasione perché potresti essere notata dalla nazionale. Però è più facile che convochino le calciatrici più vicine alle sedi di allenamento, invece che noi della montagna.
Mettere insieme il calcio e la scuola non è semplice. Quando c’era il pomeriggio, quest’anno, saltavo le due ore del mercoledì, poi tornavo dopo le 22.30 e dovevo ancora fare i compiti.

A scuola hai delle agevolazioni particolari perché pratichi uno sport a questo livello?
Non ho particolari riconoscimenti. La mia squadra aveva anche fatto una lettera alla scuola, perché incentivano le ragazze ad avere buoni risultati scolastici. 
A volte ho un po’ di paura a dire ai professori che sono una calciatrice. Non voglio che giudichino male il fatto che io sia una femmina e che gioco a calcio.

Quanto è comune, nella tua esperienza del mondo del calcio, venire giudicata perché sei donna?
A volte sono io stessa che mi do i freni perché ho paura che gli altri mi giudichino. Anche quando si scendeva a giocare a calcio in pausa mensa, con la scuola, non entravo in campo, perché avevo paura di quello che potevano dire quelli (e soprattutto quelle) delle altre classi.
Quando ero al Vezza, una volta noi ragazze siamo state chiamate a fare una partita perché i titolari dovevano fare la cresima. I nostri avversari scherzavano una nostra compagna perché si chiedevano se era maschio o femmina. Mi chiedevo perché dovessero fare così.
A volte ti dicono: "Sei la femmina più forte che ho visto giocare a calcio", oppure "Sei un maschio mancato": loro pensano sia un complimento…

Come si può rispondere ai pregiudizi?
(sorride) La migliore risposta è sul campo: questi parlano, parlano, ma poi si fanno passare il pallone tra le gambe.


Intervista a cura di Ivan Faiferri