"SuperLega": lo sport servo del dio denaro?

Fonte: wikipedia (rielaborazione di Graffiti)
 

19 aprile 2021: nasce la Superlega. 21 aprile 2021: muore (per il momento) la Superlega.
Una vicenda che ha scosso il mondo del calcio, delle istituzioni che lo governano e dei tifosi, evoluzione naturale di un trentennio di globalizzazione sportivo-finanziaria (non per niente, di lega calcistica chiusa di livello europeo ne parlò per primo Silvio Berlusconi) messa sul mercato in modo del tutto dilettantesco, se non indegno per i club che si autoproclamavano crème del calcio europeo.
Riassumendo brevemente per i pochi ignari della notizia, il 19 aprile esce un comunicato firmato da dodici squadre di club europee (presenti sei inglesi, tre spagnole e, per l’Italia, le solite Juve, Milan e Inter), con cui si annuncia la creazione di un nuovo torneo continentale infrasettimanale, alternativo alle competizioni confederali della UEFA, riservato in buona sostanza esclusivamente ai club fondatori (più alcune squadre invitate). L’obiettivo dichiarato dai principali promotori dell’iniziativa (il presidente del Real Madrid, Florentino Pérez e quello della Juventus, Andrea Agnelli) è quello di permettere ai top club di scontrarsi regolarmente creando un campionato di stelle per rilanciare e salvare il gioco del calcio (denotando un’umiltà invidiabile).
I commenti si sprecano. Qualche giornalista parla, in modo estremamente superficiale, di modello NBA, citando la massima competizione cestistica nordamericana. In realtà le diversità dal sistema sportivo in vigore tra USA e Canada (vale infatti non solo nel basket, ma anche nel football americano, nell’hockey, nel baseball e pure nel calcio a stelle e strisce), le differenze sono enormi: franchigie, sistema dei college, leghe di sviluppo, salary cap, draft, scambi, all-star game. Nulla di tutto ciò (ben noto ai fan degli sport americani) si trova nella Superlega.
Ciò che si trova è molto più concreto: per rimanere in tema di anglicismi, it’s business! Anzi, è l’apoteosi del capitalismo. Tutto ciò è ben evidente fin dalla scelta dei club fondatori: non quelli attualmente più forti (non me ne vogliano i tifosi del Milan e dell’Arsenal, ma in questo momento squadre come il Lille o l’Atalanta sono più forti), non quelli con maggiore tradizione (squadre come il Benfica, l’Ajax, il Celtic o l’Olympique Marsiglia ne hanno di più di alcuni dei dodici prescelti) ma, semplicemente, quelli più forti economicamente (o, meglio, quelli che hanno investito di più e adesso vedono spalancarsi il baratro del rischio d’impresa). Il calcio quindi non più come confronto competitivo per determinare la squadra più forte, ma come pacchetto di spettacolo da vendere al miglior offerente e da trasmettere in diretta TV in tutto il globo, sulla scia del successo di Netflix. Una proposta mediatica in cui non conta trasmettere le emozioni che il tifoso può vivere guardando una partita, ma conta mettere in campo i nomi sempre più conosciuti (e quindi più vendibili). È ovvio e incontestabile che Juve-Barcellona con la sfida Ronaldo-Messi possa generare un indotto economico che con Spezia-Benevento non si può nemmeno immaginare.
Tuttavia, la questione di fondo è un’altra: cosa vogliamo che sia il calcio? Una vetrina in cui chiunque può ammirare grandi campioni e talenti o quello sport che tiene incollato un gruppo di tifosi a seguire, qualsiasi cosa succeda e ovunque vada a giocare, la propria squadra del cuore? Due visioni antitetiche: calcolo economico contro passione, investimenti globali contro realtà locali.
Dopo nemmeno 48 ore dall’annuncio il progetto si è arenato. Eppure, questa idea diversa di calcio non si può considerare morta. Per riassumere: non ha vinto il calcio romantico e dei tifosi. Già da tempo il calcio non è uno sport del popolo. I club più grandi sono multinazionali dell’intrattenimento che fanno campionato a sé. Eppure alcune squadre ancora regalano sorprese: il Leicester che vince il campionato inglese o l’Atalanta (beati i cugini bergamaschi…) fissa nelle coppe europee sono i più recenti. Non dare nemmeno la possibilità di un confronto in base a una superiorità stabilita a priori sarebbe la negazione del lato competitivo dello sport, nonché un insulto verso chi ama questa disciplina praticamente universale.

Mattia Peluchetti