Autore: Connie Palmen
Editore: Iperborea 2018
La tua storia, la mia storia. Ted Hughes racconta l’amore con Sylvia Plath in Tu l’hai detto di Connie Palmen.
“Sono una scrittrice geniale; me lo sento. Sto scrivendo le poesie più belle di tutta la mia vita; mi renderanno famosa.”
Scriveva Sylvia Plath alla madre il 6 ottobre 1962, quattro mesi prima di suicidarsi. Una scrittrice geniale, effettivamente, che pubblica il suo primo componimento a soli otto anni, per poi vincere numerosi premi che la portano a New York a collaborare con un’importante rivista del periodo. Fin dai tempi del college la depressione si insinua nell’animo della poetessa, portandola a tentare il suicidio. Sylvia sembra vedere una luce in fondo al tunnel nel momento in cui inizia una relazione con il poeta inglese Ted Hughes, ma legare la propria salvezza agli altri equivale ad allacciarsi una pietra alla caviglia e andare ancora più a fondo. Anche Ted ha incontri ravvicinati con le crisi depressive e i due si scambiano il testimone nel sostenersi a vicenda. O nell’inabissarsi l’un l’altro.
Connie Palmen, scrittrice olandese contemporanea, lascia che sia Ted a raccontare l’amore tragico tra due artisti uniti dal sacro fuoco della scrittura: una sorta di rito religioso che porta alla creazione di qualcosa di durevole, ma anche un sostituto dell’autrice stessa che la usa per essere amata: “se non ami me, ama ciò che scrivo. E poi amami per quello”. La scrittura resta e va da sola per il mondo, sopravvivendo al tempo, ai tradimenti e al dolore, molto più dello scrittore.
Sylvia muore in un freddo lunedì del febbraio del ‘63, a trent’anni, infilando la testa nel forno, non prima, però, di aver preparato pane e marmellata per la colazione dei bambini. Il forno diventa così la sua porta per l’aldilà, l’armadio che conduce a Narnia.
“Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale.”
Nel libro della Palmen, Ted racconta della ricerca disperata di una lettera in cui la moglie lo condannasse o assolvesse, oltre a convincere i figli del suo amore. Nulla. L’unico testamento lasciato al mondo è formato da capolavori in versi e in prosa: Ariel, La campana di vetro, Alberi invernali e Il colosso, alcune tra le sue opere più famose. A questi si aggiungono lettere e diari, degli squarci sulla sua tormentata vita interiore. La scrittura delicata della Palmen dà voce ad un uomo che non riesce a smettere di interrogarsi sulle proprie colpe. Dopo la morte della moglie si addentra in quei diari che aveva sempre e solo guardato da lontano e scopre che c’è il rischio di annegare nel dolore e nella sofferenza di Sylvia. Tu l’hai detto diventa così una sorta di viaggio emotivo in una storia d’amore nata dalla folgorazione del momento:
“Tu eri sottile, flessuosa e liscia come un pesce. Eri un mondo nuovo. Il mio nuovo mondo. Questa è dunque l’America, mi dissi incantato. Bella, bellissima America!”
Un amore distruttivo, di quelli di cui è ricca la letteratura. Infatti, Hughes scrive nel componimento 9Willow Street, l’indirizzo della loro prima casa, che da soli avrebbero potuto incontrare una vita mentre la loro unione fu la loro stessa condanna a morte. Di sicuro lo fu per Sylvia.
“Coppia siamese, suppuranti ciascuno una singolare infezione
ciascuno era il palo
che infilzava l’altro.”
Il loro rapporto quasi simbiotico portava Ted a percepire lo stesso dolore della donna, reagendo però in modo diverso. Ed è proprio in questo che il suo tormento mette le radici: se si fosse comportato diversamente, l’epilogo sarebbe stato lo stesso?
Ancora una volta, è tra i versi di Hughes che si scorgono i segni premonitori del gesto di Sylvia. Ne Il tailleur di flanella azzurro, inerente il primo giorno di insegnamento al college per la Plath, Ted scrive “Ora lo vedo/ vedevo lì seduta/la ragazza sola che sarebbe morta”. E ancora, in Febbre: “Smettila di gridare al lupo/ altrimenti non saprò, non sentirò/ quando sarà davvero una cosa seria”. Il senso di attesa, il presagio di una catastrofe, trapela dalle righe.
Il suicidio non è un atto di arrendevolezza per Sylvia, quanto uno scambio: offrire il verbo in cambio del corpo, andarsene per permettere alle poesie di occupare il suo posto sulla terra. Il gesto estremo di chi sogna l’immortalità e la ricerca nel mondo della scrittura, tanto meraviglioso quanto spietato.
La campana di vetro non è solo il titolo di una delle opere più famose della Plath, ma è anche la condizione esistenziale della donna, imprigionata in involucro contro cui la vita aspirata continua a rimbalzare, restando inaccessibile.
Nessun poeta inglese, dopo Byron, ha avuto una vita privata tanto chiacchierata quanto Hughes, a detta del Times. Etichettato come l’assassino di un genio, diventa il capro espiatorio di cui il mondo aveva bisogno dopo il suicidio della poetessa americana. Quello di Sylvia crolla quando Ted le rivela di essersi innamorato di un’altra donna, Assia Wevill.
“Vidi che la sognatrice che era in lei
si era innamorata di me senza saperlo.
In quell’istante il sognatore che era in me
si innamorò di lei, e io lo sapevo.”
Anche stavolta nessun “e vissero tutti felici e contenti”: nel ’69, Assia aprirà il gas e si suiciderà esattamente come Sylvia, portando con sé anche la piccola Shura, avuta con Ted.
Miller in Dopo la caduta scriveva che un suicidio uccide due persone: in questo caso quattro. Ted riesce a liberarsi dalle proprie colpe solo nel 1999, anno di pubblicazione delle Lettere di compleanno, opera che gli consente di svelare la prima persona singolare che nascondeva dietro la maschera di una metafora o di un’analogia. L’io può finalmente parlare.
Maria Ducoli