SanPa: verità (al plurale), essenza stessa del dubbio


Nei mesi della contrapposizione cieca, della divisione faziosa tra tifoserie opposte e sorde, degli insulti e delle invettive tra tribù, la comparsa della docuserie “SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano” rappresenta per lo spettatore italiano il necessario esercizio alla sospensione del giudizio, imparando la buona pratica del passo arretrato nel bel mezzo del linciaggio liberatorio – arte che nel nostro paese ha raggiunto livelli di grande raffinatezza -.

Disponibile su Netflix dal 30 dicembre, la chiacchieratissima opera diretta da Cosima Spender riesce meglio di un saggio filosofico ad affermare lo status ontologico del concetto di verità: non un nucleo inscalfibile e assoluto, ma piuttosto l’essenza stessa del dubbio, nella consapevolezza che non si possa mai parlare di una verità, ma piuttosto di tante verità in lotta tra loro all’interno di ogni racconto possibile della Storia e del mondo. Uno scontro che tra le pieghe delle vicende che ruotano attorno alla comunità di recupero di San Patrignano si fa tangibile nelle parole di chi ci ha vissuto, e si accentra attorno alla figura del fondatore Vincenzo Muccioli, padre benevolo ma anche brutale padrone, salvatore degli eroinomani e insieme promotore di violenze, santo e diavolo.

Il lavoro di certosina cucitura delle interviste e degli splendidi materiali d’archivio firmato dagli autori (Gabardini, Neri e Bernardelli) mostra da una parte l’idolatria verso la figura di Muccioli: la nascita della comunità e l’accoglienza dei tossicodipendenti in un momento in cui – correva l’anno 1978 – lo Stato non aveva alcuna intenzione di prendersene cura, il suo apporto nel dibattito pubblico, la statura carismatica capace di ergersi a padre per una generazione perduta. Dall’altra, nella progressione dei cinque episodi che dalla nascita porta alla caduta, avanzano come ombre le contraddizioni del metodo SanPa, compaiono le catene, le botte, la macelleria, i suicidi e persino un omicidio, in una spirale incontrollabile che finirà per risucchiare Muccioli stesso. In un meccanismo a orologeria degno dei migliori prodotti cinematografici made in USA, la serie riesce nel piccolo miracolo televisivo di oltrepassare la specificità della singola vicenda, finendo col raccontare un passaggio chiave per l’intero paese, nel quale rimangono indelebili l’inquietante utilizzo di metodi detentivi che sfociano nella tortura, la presenza di sfuggevoli finanziatori (tra i quali una giovane Letizia Moratti), le valigette con i soldi in viaggio verso la Svizzera, i regolamenti di conti attraverso pistole e finte overdose, ma anche la luce quasi accecante dei momenti più alti di questo lungo documentario che rimarrà impresso per molto nello sguardo del pubblico, in special modo nella flebile voce di Fabio Cantelli, nelle immagini dei coniugi Delogu che in comunità si sono conosciuti e hanno avuto la figlia Andrea, o nelle grida delle madri dei tossici che scendono in piazza a difendere San Patrignano. Oppure ancora, nel volto di una ragazza che fugge dalla comunità ma viene ritrovata per strada da Muccioli, e nell’abbraccio timido e disperato che si scambiano mentre si riavviano verso la comunità, lungo un tragitto che fa tremare la nostra minuscola idea di verità.

Stefano Malosso