The Social Dilemma



Postare o non postare? Questo è il problema. In evidente ritardo sui tempi – ma non è mai troppo tardi quando si tratta di far luce sulla deriva tecnocratica del mondo occidentale odierno - arriva sulla piattaforma Netflix il chiacchieratissimo “The Social Dilemma”, documentario firmato dal regista americano classe 1984 Jeff Orlowski, disponibile on demand dal 9 settembre. Appartenente alla categoria del docudrama, il lavoro combina elementi di finzione (piuttosto deludenti) alle interviste rilasciate dal gotha delle ultime generazioni della Silicon Valley, le menti che hanno progettato e costruito, stanza per stanza, i social media che utilizziamo quotidianamente. Menti che però, a dispetto di un curriculum da far tremare i polsi, danno spesso la sensazione di servire sul piatto la minestrina delle suore; ad essere denunciato è il ruolo dei social nel vivere contemporaneo e i meccanismi che fanno della compulsività e dell’ossessività il leitmotiv tecnologico del futuro, in un discorso che però rimane sempre in superficie, senza mai davvero scavare nella questione, e che alla fine lascia il gusto di un’operazione riuscita solo a metà. Tante sono le voci che compongono il canto corale del film, che resteranno in fin dei conti ai posteri come una lucida autoanalisi di una generazione che, in cambio di profitti milionari, ha sistemicamente sacrificato una buona parte della popolazione mondiale. Il mea culpa è recitato da professionisti del calibro di Tristan Harris del comparto etico di Google, il fondatore di Pinterest e ingegnere di Facebook Tim Kendall, l’ingegnere di Firefox Aza Raskin, il progettista di Google Justin Rosenstein o la manager di Uber Sandy Parakilas, che hanno abbandonato le loro multinazionali per un dubbio etico di fondo: quali danni stanno provocando questi strumenti che sfuggono costantemente al controllo governativo in nome di una libertà individuale che si sta ritorcendo contro i propri utilizzatori finali (leggasi tra le righe: noi)? “Se non stai pagando il prodotto, vuol dire che il prodotto sei tu” recita il film dopo quasi un’ora di interviste e di fiction da teen-drama con tanto di bambina afroamericana che si sente respinta perché il suo selfie non ha ottenuto i like sperati, e allo spettatore parimenti inizia a sopraggiungere qualche dubbio quando la noia dell’ovvio inizia a montare, e se è sacrosanto denunciare un social media che sceglie sempre più per noi allora lo è ancor di più riflettere su un film che compare grazie agli algoritmi nelle sponsorizzazioni sul web e al numero uno tra i sinistri “suggerimenti” di Netflix. Perché non ci si può lavare la coscienza con un documentario.


Stefano Malosso