Il futuro erano i cancelli che si aprivano

Titolo: I beati anni del castigo

Autore: Fleur Jaeggy

Editore: Adelphi (1989)

Volava la bella età come i barchetti sul filo del mare a vele colme, scriveva Montale. Scorre, la bella età, su quel filo azzurro in modo apparentemente tranquillo. Le correnti sono troppo in profondità per essere viste, eppure ci sono, eccome se ci sono. Un veliero che non ha fretta di arrivare, perché la meta è il viaggio stesso. Di un viaggio nell’esistenza ci parla la Jaeggy ne I beati anni del castigo, un viaggio che si fa da fermi come quando si legge: è il tempo, fatto di rintocchi lenti, uguali a quelli precedenti e a quelli che ancora devono scoccare, che si riversa sulla protagonista. La sfiora, senza mai travolgerla davvero. 

Una voce senza nome, riconducibile alla Jaeggy stessa, trascorre la propria infanzia e adolescenza passando da un collegio all’altro. Edifici dalle cancellate sontuose, quasi sempre chiuse. Fuori l’Appenzell, con le sue montagne imponenti e le valli verdi in netto contrasto con l’azzurro inteso che fa da coperchio a quella scatola immensa che è il Mondo.

Proprio come il paesaggio, anche la protagonista è velata da un sottile strato di solitudine boschiva che la porta ad isolarsi facendo lunghe passeggiate all’alba e, al tempo stesso, a desiderare il mondo che c’è là fuori, vietato e irraggiungibile se non nel sogno.

“Il futuro erano i cancelli che si aprivano e i muri che diventavano tappeti.”

Il suo mondo è tutto lì, con le suore da baciare sulla mano e le compagne che provengono da tutto il mondo, figlie del privilegio e dell’infelicità, delle ombre fuggevoli delle quali nemmeno ti ricordi il nome una volta finito l’anno scolastico. Sono queste le anime che abitano il collegio, ragazze che si muovono e si rapportano tra di loro come bambole di porcellana, in un clima glaciale e portatore di presagio incerto. In tutto il racconto, infatti, pervade una sensazione di attesa che qualcosa capiterà, chissà perché qualcosa di brutto. 

Poi arriva Frédérique, con quella sua gentilezza inafferrabile e una maschera di perfezione indossata la mattina, prima di lasciare il suo dormitorio, quello delle ragazze grandi. Frédérique causa grande scompiglio emotivo nella protagonista, la quale capisce che crescere significa custodire nel fragile cristallo che è l’anima le emozioni nascenti e i palpiti segreti. Rimane affascinata da questa creatura eterea che simboleggia il sentimento, un amore celato e muto, forse condiviso.

“Di sfuggita, mentre parlava, mi parve di cogliere nel suo sguardo una strana luce, come i fiocchi di neve, folli e vani, che sembrano fermi nell’aria. Ebbi paura, volevo dirle di preservare sé stessa, ma non sapevo da che cosa”.

Da adulta, la protagonista ritroverà una Frédérique che parla con i morti e gioca con il fuoco e apprenderà dalla madre della ragazza che i giochi con il fuoco si sono spinti troppo in là, fino alla mania incendiaria e omicida. I conti torneranno, la follia, quello sfarfallio di neve che danzava negli occhi dell’adolescente, è esploso nel mondo. Questo è l’epilogo della sua paradossale perfezione.

“E forse furono gli anni più belli, pensavo, gli anni del castigo. Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, dei beati anni del castigo” scrive Fleur Jaggey, facendoci provare la vertigine di un’adolescenza consumata dietro il portone di legno di un collegio e nell’asfissia delle buone maniere. Ci trasporta in un tempo cristallizzato, in una dimensione di attesa in cui tratteniamo il respiro, nei desideri inespressi e nel rischio di camminare sull’orlo della perdizione e di fronte all’oblio.

I beati anni del castigo non è il fluire di un racconto, è un ruscello di ricordi. Un ruscello di montagna, magari di quelli che si trovano anche nell'Appenzell che varie volte descrive. Rinfresca, ma allo stesso tempo non travolge. Scorre piano, nel silenzio della notte lo senti appena, ma va in profondità.

Maria Ducoli