Philip K. Dick’s Electric Dreams

Di distopie e dintorni. Abbandonando il safe place della pagina letteraria e del cinema da effetti speciali, la fantascienza del futuro claustrofobico ha, negli ultimi tre mesi, subìto un’improvvisa accelerazione, cortocircuitando l’angoscia di esperimenti ben riusciti come Black Mirror e Mr. Robot fin dentro la nostra quotidianità in quel capitolo, solo in parte scritto, che ha per titolo “Covid-19”.
In questo cortocircuito di registri e linguaggi – nel quale l’ucronia di capolavori come The Man in the High Castle si intreccia senza soluzione logica alle immagini reality (se ancora questa categoria sta a significare qualcosa) di Barbara D’Urso che insegue le incursioni della polizia contro ignari bagnanti stesi sulle sdraio – Amazon Prime ripropone con tempismo Philip K. Dick’s Electric Dreams, serie televisiva antologica ideata e prodotta da Ronald D. Moore (ricordate Star Trek e Battlestar Galactica?) e Michael Dinner, costruendo dieci episodi tratti dai racconti di Philip Kindred Dick, che in questi tempi, se ancora fosse in vita, avrebbe qualcosa da dire da par suo.

I dieci racconti, affidati a registi diversi, esplorano lo spettro della bibliografia di Dick, capace di affrontare il tema del doppio attraverso la tecnologia dell’androide e del robot, introducendo il peso etico e morale di una nuova umanità del futuro alle prese con la rottura di un postmoderno ipertecnico e spersonalizzante. Un futuro, quello di Dick, nel quale, come nell’episodio The Hood Maker, i regimi autoritari potranno sfruttare una minoranza umana dotata di capacità telepatiche, o in cui scoprire che il proprio congiunto posseduto da un alieno che gli dona una virilità perduta non è poi così male per la moglie, come accade in Human Is. Tra suggestioni, provocazioni e veri e propri incroci filosofici, lo spettatore potrà soprattutto godere degli episodi più riusciti, tra i quali spiccano The Commuter, con il ferroviere Timothy Spall alle prese con una fermata fantasma, e l’indimenticabile Crazy Diamond nel quale Steve Buscemi, inetto e incapace di volontà, è invischiato in una spy story tra una casa poggiata su una costa in erosione e un’impossibile fuga dalla realtà.
Ma rimarrà soprattutto nella memoria l’apice lirico dell’intera stagione, Impossibile Planet, nel quale un’anziana signora di oltre trecento anni desidera tornare sul pianeta Terra, nel quale ha vissuto la propria giovinezza e un amore mai dimenticato, noncurante di un dettaglio non da poco: la Terra è andata distrutta da tempo. Non rimarrà, come in tutta l’opera dello scrittore americano, che l’illusione del viaggio, nell’amara constatazione che il futuro che immaginavamo è una finzione da due soldi venduta in un mercatino low cost.

Stefano Malosso