Questo articolo è uscito sul numero 322 di Graffiti.
Quando si parla di mobbing, spesso si abbassa la voce e si scuote la testa «forse voleva solo insegnarmi», la frase che si usa più spesso. Anche la stessa parola «mobbing» non viene pronunciata, in nome dell’antico principio per cui a nominarle, le cose brutte diventano reali. Il non dire, però, spesso è legato al non capire, al trovarsi a camminare su un sottile filo che separa i rapporti di potere - che ovviamente risentono della cultura patriarcale - dall’abuso. Talmente sottile che il 33,3% di persone che ha risposto al questionario sulle molestie sul lavoro, lanciato sulle pagine social di Graffiti, ha dichiarato di non essere sicura di star subendo mobbing. A prova che, quindi, un dubbio ci sia. A prova che le dinamiche lavorative spesso sono ancora troppo spesso opache e noi troppo oppresse. Nel momento in cui scrivo, il 25 novembre - giornata internazionale contro la violenza sulle donne - è passato da poco e mai come quest’anno si è parlato della necessità di invertire la rotta e dire basta una volta per tutte agli abusi. Non dobbiamo però dimenticare che le violenze non si consumano solo tra le mura domestiche, ma anche sul posto di lavoro e spesso con dinamiche subdole, difficili da identificare e ancora più complesse da rifuggire, perché uno stipendio serve, perché la precarietà dilagante non mette tutte nella condizione di battersi e tutelarsi.
«Le mie amiche mi dicevano: “al tuo posto non sarei mai resistita”, non capivano che non avevo alternative. Ho pensato mille volte di mollare tutto, ma cosa avrei fatto? Dove sarei andata?» racconta Anna, ventiquattrenne impiegata nel settore della comunicazione. Anna fa parte del 40,5% di donne che hanno dichiarato di aver subito molestie da parte di uomini, mentre per il 31% i comportamenti molesti provenivano da altre donne, per il 28,6% da entrambi. Infatti, per il 52,4% delle intervistate, gli abusi sono stati commessi dal proprio superiore e per il 47,6% da un collega. Su cinquanta donne, più della metà si è scontrata con dinamiche di potere tossiche, con una subordinazione che faceva sì che diventassero dei bersagli facili da colpire e da tormentare. D’altronde, sapere che puoi costringere una persona a fare qualcosa contro la sua volontà, che puoi rovinarle la serata, il fine settimana, le ferie o forse la vita intera, è una forma di piacere per qualcuno. Perversa, non c’è dubbio.
Volendo snocciolare ancora qualche numero, il 78,8% delle donne ha dichiarato di aver subito molestie verbali, il 2,4% fisiche e il 19% entrambe. Percentuali che non possono non farci venire la pelle d’oca, dal momento in cui non sono dati freddi ma celano delle storie, delle persone. Percentuali che, come uno schiaffo, ci sbattono davanti agli occhi la realtà della nostra sottomissione, dal momento in cui ogni violenza subita da una donna diventa un messaggio per tutte le altre, un post-it che ci ricorda la nostra vulnerabilità.
«Per due volte mi sono trovata a dovermi difendere dal mio superiore, che ha cercato di molestarmi fisicamente» racconta Giulia. «Un mobbing psicologico costante da parte dei miei colleghi» si aggiunge Chiara. «Uscivo dall’ufficio e piangevo, tutte le sere. Era un incubo» confida la giovanissima Marta. «Lo studio professionale presso cui ho lavorato per anni è gestito da un uomo che aveva l'abitudine di calcare la mano, con frequenti battute volgari, su caratteristiche fisiche femminili che erano a lui particolarmente gradite. Era sempre molto aggressivo» aggiunge Luisa, spiegando anche che il suo superiore non accettava che altri la pensassero in modo diverso. «Ero stagista, lui il mio mentore. Io avevo 18 anni, lui 37. Per me era un grande esempio, finché non mi ha messo le mani addosso, quella sera avevo vinto un concorso. Ho detto di no all’approccio fisico, il giorno dopo mi hanno detto che c’era stato un errore e non sono più stata assunta» racconta Nicole. «Ho lavorato per anni in un’azienda in cui il direttore era solito molestare me e le colleghe. Quando andavo a parlare con lui da sola in ufficio mi interrompeva con frasi del tipo "lo sai che sei bellissima" e quando gli dicevo per favore di smetterla che mi metteva in imbarazzo, incalzava. Mi scriveva messaggi WhatsApp appena uscivo. Ad alcune cene aziendali voleva condividere il bicchiere di vino, mi faceva domande sull'attività e sui gusti sessuali. Aveva sbalzi d'umore importanti e se si arrabbiava mi diceva che “mi avrebbe buttato giù dalla finestra a calci nel culo"» rivela Camilla.
Poi c’è Vittoria che ha quasi 60 anni, è in una posizione di potere ma non basta, deve comunque stare attenta e alla giovane collega dice «Nessuno al lavoro deve sapere che chiacchieriamo o che ci vediamo anche fuori dall’ufficio», e quando la ragazza le domanda il motivo, lei spiega: «perché il capo è molto possessivo, per lui io sono sua. Se sa che ho un rapporto privilegiato con qualcuno è finita, lo dico pensando anche a te e al tuo bene». E allora ascoltandole, viene da chiedersi perché, ancora oggi, non possiamo essere libere, anche di lavorare. Perché una donna con una carriera alle spalle e con un ruolo apicale debba centellinare le parole, abbassare la voce, difendersi.
Le storie possono essere diverse, ma le conseguenze delle molestie sul posto di lavoro hanno spesso conseguenze molto simili: ansia e attacchi di panico nel 54,8% dei casi, disturbi del sonno (45,2%), disturbi del comportamento alimentare (31%), depressione (4,8%). L’Italia, dice la Costituzione, è una Repubblica fondata sul lavoro. Peccato che, ancora troppo spesso, per noi sia un lavoro molesto.
Maria Ducoli