Pensando a New York

 

Dall'archivio di Graffiti, n. 98, ottobre 2001

Non c’è ma e non c’è se che tenga... Difficile anche per modesto foglio locale prescindere da quanto accaduto l’11 settembre a New York. Per tanti motivi, di tutta evidenza. Le dimensioni della tragedia (il numero delle vittime), la novità “tecnica” del progetto, il suo significato politico, per l’oggi e per il domani, le conseguenze che ne deriveranno: sono elementi che lo rendono un  avvenimento immediatamente planetario. 

Ai cui effetti non sfuggono neppure le periferie come la nostra.  Influirà sui modi soggettivi e materiali del nostro rapporto con gli altri, sul nostro grado di apertura al diverso, ci renderà più disponibili a sacrificare “quote  di libertà” a promesse di sicurezza. E inciderà sui nostri livelli di vita, se vorremo seriamente affrontare le cause sociali della violenza planetaria. O ci precipiterà nella spirale di un’esistenza sempre più blindata ma non per questo più  sicura, per le prossime generazioni se non per noi. Tra gli impegni immediati perché il peggio non si avveri, per quanto sta ad ognuno di noi, nel suo piccolo, c’è quello di elementari radicali considerazioni. 

La prima: che è sbagliato attenuare e superare il naturale sconcerto ed il dolore  per le vittime, per tante vite così cinicamente “usate”, razionalizzando il crimine e vedendolo come la naturale rivolta del sud povero del mondo verso i ricchi  del pianeta, simboleggiati dal fulgore di potenza tecnologica e finanziaria racchiuso nelle torri gemelle, edifici simbolo di una città simbolo di un paese a sua  volta simbolo di tale sfrontata ricchezza.  Con altrettanta nettezza va respinta, ed è la seconda considerazione, l’esecrazione del fatto quando venisse accompagnata da tanti ma e da tanti però quante  sono state le malefatte degli Usa sullo scenario della politica internazionale nei decenni trascorsi, dal Cile al Vietnam, dall’embargo Cuba a quello irakeno ecc. ecc., quasi una chiamata in correo degli States e quindi un’implicita attenuante per il più folle dei terrorismi. Fatti di tale gravità e dimensione, come quello di New York, non possono e non devono essere razionalizzati, rispetto a quanti scelgono di commetterli e di parteciparvi. Non vanno “capiti”, così come Primo Levi affermava che non si  potevano capire/spiegare i campi di sterminio, per nessuna ragione storica politica e culturale, perché sarebbe stato come giustificarli, anche solo minimamente, come concedere loro una razionalità immeritata tra gli eventi della storia. Meno che mai si può accettare l’assurdità di riconoscere quali difensori  degli affamati o degli oppressi del mondo una casta di privilegiati, gli sceicchi alla Bin Laden, che non condividono nulla delle tragedie del loro popolo, e anzi ne sono una delle cause per l’uso particolaristico e sfacciato delle ricchezze derivanti dal petrolio. Il problema dell’ingiusto utilizzo delle risorse del mondo esiste, ed assume gravità sempre maggiore, come esiste il problema del ruolo della potenza Usa  nel mondo, di una sua credibilità democratica da recuperare, per la spregiudicatezza e l’opportunismo di una politica guidata più dagli interessi imperiali  che dai valori della loro Costituzione democratica. 

Esistono, vanno posti. Se li deve porre per opportunità, se non per ragioni di umanità e giustizia, lo stesso mondo occidentale, ma non giustificano nulla di quanto accaduto e non danno attenuanti a nessuno. Ai movimenti che hanno avuto il merito in questi ultimi mesi di richiamarci  all’impegno sociale sui temi della globalizzazione, alla sinistra politica più attenta ai temi della pace e della giustizia nei rapporti internazionali, va chiesto il  massimo sforzo di chiarezza nell’analisi e nella definizione degli obbiettivi del loro impegno. La causa del sottosviluppo e dei diritti umani non può lasciare alcuno spazio di comprensione alla violenza del terrorismo; la causa della pace  deve chiedere rigore nell’azione di individuazione dei colpevoli e nella loro punizione, dei gruppi terroristici e di quanti danno loro territori e mezzi per  agire. 

Non può sfociare nel pacifismo che accetta solo l’inazione, se vuol essere efficace proposta politica e non solo testimonianza morale.  É nel rigore delle analisi e dei giudizi, insomma, è nella limpidezza di proposte che non lascino spazio ad ambiguità o strumentalizzazioni, il presupposto per offrire un terreno d’impegno a quanti, giovani o meno giovani, non vogliono rassegnarsi ad assistere passivamente al nostro drammatico presente. E mi pare il primo contributo possibile.

Bruno Bonafini