Aborto: Esine unico ospedale dove viene praticato, ma il 50% del personale è obiettore. A Iseo lo è il 100%
Parliamo di aborto. Parliamone perché è sempre più spinoso farlo. Un argomento delicato, si dice. Per chi non si sa. Parliamone, perché da pratica sanitaria si è trasformato in questione etica.
Se in Valle Camonica diventare madri non è certo semplice, con un solo reparto di maternità nel presidio ospedaliero di Esine a cui viene chiesto di coprire tutto il territorio, da Ponte di Legno al Sebino, le cose non migliorano quando si parla di Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG). Come per il parto, anche per abortire ci si può recare unicamente a Esine. Qui, il 50% dei medici che potrebbero dedicarsi alla pratica è obiettore. Su dieci operatori, solo cinque esercitano l’IVG. Meglio che in altri posti, tutto sommato. Meglio che a Iseo, dove l’obiezione raggiunge il 100%. Houston, abbiamo un problema. Houston, voglio scendere da questo Sistema Sanitario Nazionale che in fatto di IVG di nazionale ha ben poco. Una sanità pubblica dovrebbe garantire l’accesso alle cure mediche, come sottolineato dall’art. 32 della Costituzione. Eppure, se si tratta di aborto, l’accesso ce l’hai solo se sei fortunata, se ti trovi nel posto giusto. Nella regione giusta, nell’ospedale giusto. Che evidentemente non è quello di Iseo.
Se i medici hanno tutto il diritto di essere obiettori - come sancito dall’art. 9 della L.194/1978 -, questa sottolinea anche che “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure”. Ovvero: dottori, pensatela come volete ma noi abbiamo il diritto di poter ricevere le cure che chiediamo, qualsiasi sia la vostra opinione. Sempre nell’art.9, viene ribadito che è compito della Regione controllare e garantire l’effettiva erogazione della prestazione, anche attraverso la mobilità del personale. Ma se ad oggi a Iseo non è ancora possibile accedere all’IVG, qualcosa nell’ingranaggio della sanità si è bloccato.
Arriva ora la domanda che spesso ci si pone: è giusto il diritto all’obiezione da parte dei medici? Sì, forse. Ma solo se la Regione e l’azienda ospedaliera garantiscono a tutte le donne di poter esercitare il proprio diritto di accesso a un’interruzione volontaria di gravidanza sicura. Se in un ospedale pubblico nel 2023 le pazienti devono ancora sentirsi dire di provare da un’altra parte, allora no, non è un diritto giusto perché fa venire meno quello previsto sia nella Costituzione che nella 194. Fuori gli obiettori dagli ospedali pubblici, si legge spesso durante le manifestazioni in tutt’Italia. Forse dovremmo cambiare punto di vista: facciamo entrare le IVG in tutti ospedali pubblici.
Parliamo anche di un altro problema: reperire i dati sull’obiezione.
Ci abbiamo provato diverse volte. Chiederli telefonicamente all’ufficio stampa è fuori discussione, serve la mail scritta. Attenzione però, una mail normale non va bene. Serve la pec, che fortunatamente è obbligatoria nel momento in cui ci si iscrive all’Ordine dei Giornalisti. Ricordiamoci che in altre realtà i giornalisti si sentono con gli uffici stampa delle aziende sanitarie quasi quotidianamente. E nessuno ti chiede un domanda via pec per ottenere i dati di cui si ha bisogno. Dei problemi legati al reperimento di queste informazioni ne parlano anche le giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove nel libro Mai dati. Dati aperti sulla 194, in cui parlano proprio della poca trasparenza della Pubblica Amministrazione in fatto di IVG.
«Perché questa difficoltà per i giornalisti che vogliono lavorare e scrivere a partire dai dati?» si chiedono. La stessa domanda che ci siamo posti nel momento in cui volevamo affrontare l’argomento su queste pagine. Era il 2016 quando il decreto legislativo 97 introduceva in italia il Foia (Freedom of Information Act), diffuso in oltre cento Paesi al mondo per garantire “il diritto di accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni”. Ma, ad oggi, non è che la sua attuazione si sia pienamente concretizzata se abbiamo ancora PA che si nascondono dietro alla privacy per la pubblicazione di numeri non riconducibili a persone. I dati sull’obiezione di coscienza non ledono il diritto alla riservatezza di nessuno. Dati che - sottolineiamolo - dovrebbero essere un bene comune e una risorsa. Perché non sono dati aperti, facilmente raggiungibili dall’intera popolazione?
La risposta da Breno si fa attendere qualche settimana. Poi arriva e, insieme ai dati richiesti, anche due righe conclusive. «Si richiede inoltre di poter visionare l’articolo in previsione di pubblicazione sul vostro giornale per opportuna nostra conoscenza».
No che non si può. Chiediamo forse ad un medico di poter controllare la diagnosi? No. Allora perché ci sentiamo legittimati a farlo con i giornalisti? Si tratta dell’ennesimo tentativo di controllo della stampa. Dell’ennesima volta in cui a noi giornalisti viene richiesto di poter buttare un occhio sul nostro lavoro, si sa mai che si parli male di qualcosa. Si sa mai che ci passi per la testa di sollevare problemi e domande.