Il glifosato è cancerogeno. Ma noi lo useremo per altri dieci anni (in Europa e in Valle)

Pubblichiamo una anteprima dell' articolo di Piero Confalonieri, che uscirà sul prossimo numero cartaceo di Graffiti. Se non sei già abbonatə, scopri come diventarlo cliccando qui.

Il glifosato è una molecola di sintesi, cioè non esistente in natura ma prodotto del lavoro in laboratorio, molto efficace per eliminare le erbe infestanti in agricoltura. Si tratta di un erbicida sistemico e cioè il cui principio attivo viene assorbito dalla pianta e trasportato a tutti i tessuti (foglie, fiori, radici e steli, nonché polline e nettare). E’ inoltre un erbicida totale, ossia non selettivo, agisce quindi su un ampio spettro di specie di vegetali, funghi e microrganismi; la sua molecola ha un costo relativamente basso ed elevata efficacia e solubilità in acqua. Queste caratteristiche ne hanno fatto un prodotto molto diffuso in tutto il mondo, sintetizzato da Monsanto circa cinquant’anni fa e venduto con il nome commerciale di Roundap. In Italia è l’agrochimico di maggior impiego, tanto da costituire il 52% di tutti gli erbicidi utilizzati; anche in Valle Camonica viene distribuito sui campi spesso e volentieri, prima delle semine. 
L’Unione Europea il 16 novembre di quest’anno ha approvato una ulteriore proroga che ne permette l’uso nelle attività agricole nei Paesi membri, per altri dieci anni.
Proprio la sua ampissima diffusione, ha messo questo prodotto sotto la lente d’ingrandimento per verificarne eventuali effetti sulla salute umana e sulle altre specie animali. Una ricerca della Facoltà di Agraria dell’Università di Milano e dell’Istituto di ricerca sulle acque (IRSA/CNR) sulla rete di acque superficiali della Lombardia, ha riscontrato valori eccedenti il limite imposto, con superamento del valore-soglia di migliaia di volte. Avete letto bene e non è un errore di battitura: presenza di tracce di glifosato migliaia di volte superiore alla soglia permessa nelle acque di scorrimento lombarde.
Una meta-analisi su studi pubblicati, svolta negli USA, ha evidenziato “un legame convincente”, tra l’esposizione prolungata a erbicidi a base di glifosato, quindi tra gli agricoltori statunitensi, e l’aumento del rischio -superiore del 41%- di sviluppare il linfoma non-Hodgkin (in “International Journal of Epidemiology”, “Pesticide use and risk of non-Hodgkin lymphoid malignancies in agricultural cohorts from France, Norway and the USA: a pooled analysis from the AGRICOH consortium”, Volume 48, Issue 5, Pages 1519–1535, https://doi.org/10.1093/ije/dyz017 pubblicato nell’ottobre 2019). In queste ultime settimane, appaiono le prime evidenze di una ricerca sui ratti, guidata dall’Italia con l’Istituto Ramazzini di Bologna e a cui partecipano ricercatori di Stati Uniti, Sud America ed Europa, che indicano che “sia il glifosato che gli erbicidi a base di glifosato causano leucemia nei ratti in giovane età e a basse dosi di esposizione”, mentre “non sono state osservate leucemie nei ratti non esposti”. Le dosi somministrate, già dalla vita prenatale delle cavie, sono equivalenti a quelle “attualmente considerate sicure o prive di effetti avversi dalle agenzie regolatorie” (vedere servizio https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2023/10/glifosato-europa-leucemie-giovanili-tossicologia-istituto-ramazzini-pesticidi-cancro-9c9c0b9b-812f-451d-b66c-50edb07009d8.html).

Piero Confalonieri